Milano non se ne accorse. Era un giorno afoso di luglio, cosa vuoi che importi ai milanesi di un funerale? Luglio che è il mese del mare, luglio che è il mese che se deve essere camicia almeno di lino e comunque stropicciata. Luglio a Milano è il mese dei binari del tram che sudano con il riflesso di un’otturazione appena fatta. A Luglio forse dovrebbero vietarli: i funerali a Milano. Eppure era luglio, nella chiesa di San Vittore, dentro si celebrarono le esequie di un avvocato che lasciava la moglie Annalori e tre figli, Francesca, Filippo, Betò. L’avvocato era stato ucciso. Tre colpi, calibro 357 magnum, davanti a casa, la notte dell’11 luglio 1979. Sarà che è così poco milanese morire di luglio e peggio ancora da sparati; si contava qualche magistrato, al funerale di Luglio nella chiesa di San Vittore, c’era il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, e quegli amici e quei parenti che ai funerali non mancano mai. Politici, nessuno. Finanzieri e cravatte, nessuno. La rampante e metallizzata “comunità degli affari milanese”, nessuno; in vacanza, al mare i figli, la moglie insieme all’etica e alla memoria. Per ogni città un funerale che stona per le assenze è un buco che non si chiude nemmeno a leccarlo per tutti gli anni dopo. Fu un funerale oscenamente privato, per il dolore della famiglia, della moglie Annalori, di Francesca, Filippo e Betò. Un funerale a forma di buco, ma Milano non se ne accorse.
Ma la morte di quell’avvocato, Giorgio Ambrosoli, non era una morte privata nonostante il funerale. Giorgio Ambrosoli era il commissario liquidatore della banca di Michele Sindona, che l’aveva portata nel vortice di un gigantesco crac anche lui a forma di buco. Quell’avvocato aveva ricevuto l’incarico dal Tribunale: Ambrosoli con il piglio leale degli onesti a camminare sui bordi per misurare il cratere. Intanto Sindona seduto sopra ai suoi pantaloni su quelle scrivanie presuntuose che scricchiolano come scranni sorrideva e guardava il buco. Giorgio Ambrosoli non sorrideva, Ambrosoli era uno di quegli avvocati che al mattino al lavoro si portano l’agenda, i fazzoletti, l’impegno e il coraggio. E con l’ostinazione silenziosa degli artigiani del giusto si era opposto al salvataggio di Sindona (almeno 250 miliardi di lire) a spese dei contribuenti. Raccontano che arrivati lì a Sindona si sia spento il sorriso; e quando si smunge il sorriso ai potenti seduti sugli scranni non succede mica come tra le persone normali che arriva di corsa la malinconia. Raccontano (ma saranno sicuramente malelingue) che quando a Sindona è sbiadito il sorriso sul pavimento ha cominciato a gocciolare il veleno. Ambrosoli come tutti i giorni: agenda, fazzoletti, impegno e coraggio prima di una saluto al solito bar. E intanto una pozzanghera come un conato di minacce, intimidazioni e telefonate anonime. Ma la strada di ogni mattina di tutte le mattine e lui sopra tutti i giorni sempre la stessa. L’avvocato con la schiena dritta non aveva cambiato strada: per il gusto cremoso della propria coscienza, forse avrà pensato, vale la pena sporcarsi un po’ le scarpe. È che alla fine, tra tutti questi buongiorno alla mattina e sorrisi e cravatte che scricchiolano, alla fine era rimasto solo: lui, Annalori e il maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre. Solo in vita, e allora sarà per questa mania tutta milanese della consonanza, solo anche dopo la sua morte. Milano non se n’accorse.
Silvio Novembre è mancato. Un esempio di cittadinanza altissima, anche se in seconda fila. In un’intervista a Repubblica, Novembre raccontò di aver smesso di festeggiare il compleanno perché all’indomani del giorno in cui uccisero Ambrosoli. “Messi insieme, non eravamo una somma ma una moltiplicazione. Senza di lui, io valevo un quarto, non la metà. E lo stesso lui senza di me. Giorgio ci metteva la grande competenza tecnica, la capacità di analisi. Io, la forza dei miei quarant’anni. La voglia di buttare giù i muri. Sempre”.
Accorgersene è il minimo che gli dobbiamo.
Buon lunedì.