Il rapper romano racconta il suo modo di esprimersi. «La musica è un modo per esorcizzare i sentimenti negativi», dice. E il 12 ottobre sarà in concerto al MAXXI a Roma

Madre egiziana, padre croato, nasce e cresce romano, al Tufello. La scuola, gli amici, lo skate:  è tutto questo che ancora ragazzino inizia a raccontare. Le sue prime esibizioni rap dal vivo al Phat Roma, registra il suo primo pezzo “Tufello talenti” e non smette più. Trasforma uno scenario metropolitano in un fantasy: un’alchimia di allegorie, rimandi letterari, immagini dei fumetti per far vivere altre storie.

Tra gironi danteschi, personaggi alla Calvino, descrizioni alla Tolkien, attingendo ai suoi vissuti d’infanzia prima, a quelli più arrabbiati di adolescente, poi, decise di chiamarsi “Rancore”, all’anagrafe Tarek Iurcich. Più di un anno e mezzo fa esce il suo quarto album di inediti, Musica per bambini e inizia il tour omonimo; a Sanremo in coppia con Silvestri arriva la notorietà, ma lui è già tra i rapper più interessanti dell’ultima generazione. e Tarek/Rancore si appresta a concludere questo nutrito tour proprio a Roma, casa sua. Il 12 ottobre sarà al Maxxi perché è lì che ha deciso di dar vita a uno show sonoro, ma anche spettacolo teatrale, per i dieci inediti che formano il suo ultimo lavoro e per quelli precedenti. Alla vigilia di questa data importante, parliamo del suo rap, che lui stesso definisce ermetico.

Sei ancora arrabbiato, visto che hai mantenuto lo stesso pseudonimo?
Lo porto da quando ero molto pischello, crescendo ha assunto significati completamente diversi. Prima volevo rappresentare la rabbia adolescenziale in una parola che fosse potente, andando avanti mi sono accorto che la vita ti porta ad approfondire tutti i sentimenti, anche quelli negativi. Il rancore certamente non è una cosa che mi piace, ma la musica può essere un buon modo per esorcizzare i sentimenti negativi.

Pensando al titolo dell’album, ai pezzi che ci sono dentro, che sono una sorta di storytelling, quando, e come, dai “Giocattoli”, per citare uno dei brani più suggestivi, sei passato a fare musica?
A 13 anni e nel giro di un paio di anni ho scritto il primo disco. Ho preso i giochi abbastanza seriamente e ho iniziato presto a giocare anche con le parole. Ho voluto tirare fuori dalle parole qualcosa di concreto anche se era prematuro farlo. Avevo questa esigenza di fare un disco, di vedere che cosa accadesse quando quella parola, quel gioco diventava di tutti. Ho sempre amato i giochi più complessi, ho cercato sempre di creare qualcosa. Un’altra passione che mi ha accompagnato fino ad adesso è stato lo skate-board. Vedo molta somiglianza tra l’uso della metrica e quello dello skate.

Sempre a proposito di ragazzini, a loro il rap piace molto, ha un linguaggio che apprezzano; il rap accomuna e fa stare insieme. Che cosa li appassiona in particolare?
Il fatto che si può fare con pochi mezzi, non serve neanche uno studio di registrazione o saper suonare qualcosa. Questo lo rende come il calcio: se prendiamo un foglio di carta e facciamo una palla, possiamo divertirci, come si fa a scuola. L’hip hop nasce da un dj, dall’uso del giradischi in modo diverso dal tradizionale ma usandolo con lo “scratch”.

Ne è uscito fuori un modo, un suono, un approccio alle cose completamente diverso, che si basa sul sapersi arrangiare ed è questo che piace ai ragazzi probabilmente, che gli permette di ritrovarcisi e comunicare quello che provano senza grossa preparazione. È un linguaggio immediato, di cuore. Questa è la comunicazione che piace solitamente all’adolescente, che è sincero.

Nei tuoi brani hai una narrazione serrata, ma dichiari di non usare “rime contro”, ma che i versi che scegli ti servono per parlare della solitudine, dell’alienazione, della incomunicabilità. Quali sono le cause di tutto questo disagio? Viviamo in un momento social, ma anche di alienazione: dove possiamo andare a trovare le cause?
Questo disco parla a tutti, non solo agli adolescenti. Ognuno ha un suo motivo per soffrire: i bambini perché vedono nei genitori delle difficoltà, i genitori perché non riescono a stare appresso ai cambiamenti del virtuale, o a quelli politici, mondiali che non li rendono tranquilli, mettendoli continuamente alla prova.

Gli adolescenti stanno in mezzo: hanno la responsabilità di essere figli di questo cambiamento, ma allo stesso tempo hanno gli stessi problemi di prima, a iniziare dal mondo che per loro è ancora inspiegabile o dal fatto che hanno troppe regole, che sono incomprensibili e che loro vogliono, e devono secondo me, rompere. I genitori, vivendo anche loro una crisi, non hanno i mezzi per far capire a un adolescente le ragioni per cui ci sono certe regole. Da qui nasce questa incomunicabilità. È solo un periodo, passerà nel momento in cui avremo un’educazione, per esempio al virtuale.

In che senso possiamo parlare di un’educazione al virtuale?
Semplicemente, dando una filosofia di base alla cosa, che non c’è. Ci hanno messo una pistola in mano senza dirci niente ed è scoppiato il far west, anzi “ci spariamo” foto, ma le pistole si possono dare insegnando a usarle: solo in caso di difesa oppure spiegando che non vanno usate per giocare.

Tu hai un’idea, invece, di come ne potremmo venire fuori?
No perché anche io vivo la stessa crisi che ho la fortuna di poter esplicitare, questo in parte mi riordina un po’ le idee. La soluzione intanto è mettere più creatività possibile nelle cose e non farsi rubare la creatività perché in parte quello che fa il virtuale è rubare qualcosa.

Il tuo modo di esplicitare, lo hai detto tu, è un rap ermetico, che però non è mera poesia: ce lo spieghi?
Ogni frase che dico porta con sé un ventaglio di significati da cui ogni volta può apparirne uno nuovo. Questo mi piace fare con la musica; sono un appassionato di questo tipo di linguaggio, che è una sorta di grande rompicapo.

In “Arlecchino” questa ricchezza di significati c’è, ma chi è esattamente?

È la canzone stessa che è un arlecchino perché in ogni frase che dico cito una cosa diversa: nella prima strofa i fumetti, nella seconda la letteratura, nella terza i quadri. Ho costruito e cucito un costume che metto raccontando alcune piccole cose di me attraverso citazioni e immagini che ho scelto.

 Rancore si è trasformato, ma ci devi fare i conti, un po’ come tutti; quanto a Tarek, qual è il significato del tuo vero nome?
La strada da fare… o una cosa del genere.