Studiare i populisti e i meccanismi con cui avvelenano la democrazia. È l’obiettivo della giornalista turca che nel libro “Come sfasciare un Paese in sette mosse” ha ripercorso la politica della dittatura turca. Che l’ha attaccata e costretta all’esilio

Erdoğan, Trump, Putin, Assad. Kaczyński, Orbán, Salvini… Il populismo di destra è un’onda nera «che non riguarda solo redivivi sultani mediorientali ma sta intossicando l’Occidente perché è il frutto mostruoso di politiche neoliberiste» scrive Ece Temelkuran, autrice di un saggio che è diventato rapidamente un caso editoriale, Come sfasciare un paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura (Bollati Boringhieri).

«Il populismo sta dando il colpo di grazia alla democrazia rappresentativa. Ho scritto questo libro perché volevo stimolare una conversazione al livello globale per prendere coscienza di questi meccanismi politici», disse Temelkuran al Salone del libro di Torino 2019 (in una affascinante conversazione con Donald Sassoon di cui si può rivedere il video) e ha sviluppato poi quest’intento chiamando all’appello intellettuali democratici e progressisti in tutto il mondo.

Licenziata in tronco nel 2012 dal giornale per cui lavorava per aver criticato operazioni militari turche contro i curdi, durante questi ultimi anni trascorsi in esilio in Croazia, Temelkuran ha riflettuto a fondo sul progressivo scivolamento del Paese in un regime autoritario, avvenuto passo dopo passo. Per anni l’Occidente ha osannato la crescita economica della Turchia di Erdoğan. Dopo l’11 settembre 2001 fu celebrato come paladino anti terrorismo islamico, mentre si fingeva di non vedere la repressione interna che stava mettendo in atto. Solo la protesta di Gezi park fece sollevare qualche dubbio. Ma ancora in Italia i campioni del liberismo si battevano per far entrare in Europa la Turchia di Erdoğan. Poco importa che le sue prigioni fossero già piene di dissidenti. Poco importa se il suo regime viola i diritti umani. Poco importa il tentato golpe del 2016. E la sistematica censura esercitata sui media e sui social network.

«Di fronte a tutto questo non basta gridare allo scandalo e dire che non è giusto; bisogna studiare i meccanismi attraverso i quali il populisti riescono a imporsi avvelenando la democrazia», dice la giornalista, spina nel fianco del regime, diventata simbolo di resistenza intellettuale a livello internazionale. Non basta denunciare, bisogna trovare gli strumenti diplomatici e di pressione per fermare l’attacco turco ai curdi, aggiungiamo, pensando alla nostra responsabilità di europei che hanno pagato Erdoğan perché fermasse il flusso di migranti. Nell’offensiva detta operazione “Fonte di pace”, come sappiamo, i mezzi impiegati sono i più violenti: azioni di guerra contro i civili, come ha denunciato Amnesty international «con spietati attacchi anche contro aree abitate», utilizzando carri armati e armi che noi occidentali gli vendiamo. Ricorrendo ad ogni mezzo, anche il più feroce. Le ustioni sul corpo di civili (fra loro anche molti bambini) fanno sospettare l’uso di armi chimiche. «La propaganda turca sostiene che la guerra sia necessaria per creare delle aree cuscinetto nel nord della Siria, in cui rimandare i profughi siriani che vivono in Turchia», dice Temelkuran. Erdoğan “giustifica” così operazioni di sostituzione e di pulizia etnica.

Solo apparentemente meno cruento è l’uso che la leadership populista turca fa della comunicazione, alterando la realtà, manipolandola, costruendo narrazioni ad hoc. Abbiamo sotto gli occhi l’uso distorto che ne fa Trump o lo stesso Salvini con la sua ben nota “bestia”. Ancora oltre, però, si colloca la macchina da guerra della comunicazione del governo Erdoğan strutturata per produrre notizie false, per gettare fango su chi dissente, fino ad isolarlo e a distruggere la sua immagine pubblica e sociale. Ha fatto giustamente scalpore il caso del cestista Enes Kanter, che dopo un tweet contro il tentato golpe di Erdoğan fu privato del passaporto. Molti altri casi, purtroppo, non riescono a raggiungere la ribalta internazionale. Della macchina del fango ordita dal regime ha dolorosamente fatto esperienza Ece Temelkuran, fin dal 2012, quando «le molestie online non erano ancora all’ordine del giorno come lo sono oggi». Per difendersi da un massiccio attacco che le piombò addosso attraverso i social media denunciò la guerra che il governo – con i suoi eserciti di troll – aveva ingaggiato contro figure pubbliche dell’opposizione. La risposta più carina che ricevette fu «ma chi ti credi di essere». Poi una ridda di insulti. Fino ad essere additata come paranoica. Un gorgo da cui è difficile sottrarsi. Lo scherno e il sarcasmo bruciano. L’odio ferisce e spesso scatena delle azioni nella vita reale. Non basta non collegarsi online. «Con questo sistema quasi tutte le voci critiche e dell’opposizione sono state espulse dai media, attraverso un bombardamento sistematico compiuto dagli opinion maker populisti», ha scritto Ece Temelkuran che invita a leggere con preoccupazione anche quel che è avvenuto nella comunicazione pubblica in Italia durante il governo giallonero.

In Turchia, come da noi in Italia, per produrre un certo tipo di consenso, è stata utilizzata una narrazione alterata della realtà, che individua un capro espiatorio di comodo su cui indirizzare il malcontento della società. Il mezzo privilegiato è un linguaggio semplificato, “triviale”, per raggiungere l’uomo della strada, per segnare la distanza e il proprio disprezzo verso l’establishment, la cosiddetta élite, quella che nel linguaggio dei grillini della prima ora era la casta. «Così l’ignoranza esaltata e politicizzata si siede con orgoglio accanto ai membri dell’intero arco politico e si dedica all’impresa di dominare la società». Temelkuran descrive questo processo concretamente rievocando un episodio personale, ricordando quella volta che sua nonna le chiese a bruciapelo: «Adesso mi chiamano fascista, Ece?». Insegnante, donna, laica, per lunghi anni si era spesa per l’alfabetizzazione dei bambini nelle campagne. E d’un tratto tutto ciò veniva screditato e denigrato. Era una sera del 2005 e la nonna della scrittrice aveva appena ascoltato un dibattito in tv in cui esperti della comunicazione dell’Akp dicevano di essere stati esclusi di una élite intellettuale oppressiva, «fascista». Andava in scena così un drammatico ribaltamento della realtà, si faceva strada un «vittimismo artefatto» che additava la maggioranza laica. Si faceva strada sui media una «retorica dell’orgoglio nazionale» dell’identità religiosa da affermare con ogni mezzo, a scapito di chi la pensa diversamente. Erano i germi del nazionalismo religioso e imperialista che ora vediamo all’opera nel nord della Siria. 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Ece Temelkuran prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 

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