Figura chiave delle privatizzazioni in Italia tra il 1991 e il 2001 da direttore generale del Tesoro, passato a Goldman Sachs lavorò per smantellare la presenza pubblica in economia. Un ritratto del cosiddetto “salvatore dell’euro” che ha appena lasciato la guida della Bce

Nel giugno del 1992 il panfilo della famiglia reale inglese Britannia navigava lungo le coste italiane. A bordo, secondo una leggenda, si sarebbero incontrati i massimi esponenti dell’élite economica e finanziaria per discutere delle privatizzazioni nel nostro Paese. Non sappiamo quale rilievo abbia avuto il fatto specifico, ma è certo che in quegli anni, dopo che il ciclone giudiziario “mani pulite” travolse il nostro sistema politico, i governi Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi e D’Alema (solo per ricordare i più noti) trasformarono completamente i connotati dell’economia del nostro Paese.

È certo anche che Mario Draghi fu a bordo di quel panfilo e che, tra il 1991 e il 2001, da direttore generale del ministero del Tesoro e presidente del Comitato per le privatizzazioni, fu una figura chiave nello smantellamento dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) e nelle privatizzazioni di aziende e banche quali Telecom, Autostrade, Eni, Enel, Bnl, Banca commerciale italiana e tante altre, fortemente volute da quei governi. Draghi, dopo aver lavorato per le privatizzazioni, nel 2002 divenne vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa, cioè di una banca d’affari che svolse un ruolo chiave nello smantellamento della presenza pubblica nell’economia e con cui lo stesso Draghi aveva intrattenuto rapporti.

Nel periodo in cui Draghi fu a Goldman Sachs, Grecia, Italia e altri Paesi si sforzavano di rientrare nei criteri di adesione alla moneta unica. Nel 2009, quando la Grecia entrò in crisi, si scoprì che lo stato dei suoi conti pubblici era assai più disastrato di quanto indicassero le statistiche ufficiali: lo stato delle sue finanze era stato…

L’articolo di Andrea Ventura prosegue su Left in edicola dall’1 novembre

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