Lo schema è sempre lo stesso: quelli propongono la cittadinanza onoraria a Liliana Segre sapendo già che quegli altri diranno no e quegli altri immancabilmente dicono no. Ci si indigna (giustamente, perbacco), leghisti e destrorsi vari inventano qualche scusa campata per aria e difficilmente sostenibile per giustificare il proprio no (“non è di qui”, “è passato troppo tempo” sono le risibili giustificazioni più usate) e infine si ricomincia. In un’altra città. Con lo stesso identico schema. Di nuovo.
Che oggi la destra (che è estrema destra, non ha niente a che vedere con una destra liberale e democratica) balbetti ogni volta di fronte ai temi del razzismo, dell’antisemitismo e addirittura di certo fascismo è una cosa ormai chiara e risaputa. Salvini potrà continuare a indossare tutti i girocollo sotto la giacca che trova nell’armadio ma la sua natura è troppo conclamata per essere improvvisamente simulata in altro.
Il gioco però non vale la Segre. Buttare nel tritacarne la senatrice a vita e tutto quello che rappresenta per smascherare l’ipocrisia di leghisti e compagnia cantante è, per mia modesta opinione personale, poco rispettoso nei suoi confronti: davvero c’è bisogno di inseguire questa banalizzazione a cui occorre una donna simbolo? Davvero non si riesce a combattere il parafascismo dilagante con contenuti culturali, sociali, storici e finanche politici? Non varrebbe la pena, proprio come azione politica, insegnare la storia e la testimonianza di quei tempi senza bisogno di usare persone di tal risma come feticcio?
Anche perché qui fuori, nel torrente delle banalità a cui credono in molti, ci sarebbe bisogno di un’alfabetizzazione storica molto più di quello che si creda. Liliana Segre non è solo una faccia: è testimone di una cicatrice universale che abbiamo il dovere di non lasciare appannare. Sarebbe più serio. Forse.
Buon venerdì.