La riduzione dei parlamentari, come scritta dalla Lega (programma 2018) e fortemente sostenuta dai leader del M5S, è stata approvata. Anche dal Pd, non per convinzione ma solo per fare il governo. Dopo che aveva sempre votato contro e solo pochi mesi fa la definiva: «Una ferita alla democrazia parlamentare».
Si sono propagandate le motivazioni facendo soprattutto leva sui – purtroppo molto spesso giustificati – sentimenti negativi dei cittadini verso i parlamentari.
Nessun particolare risalto è stato dato dai maggiori organi di informazione, salvo episodiche eccezioni. I cittadini poco o nulla sanno sulle conseguenze: equilibri istituzionali e disuguaglianza ulteriore tra Regioni, rappresentanza dei cittadini e rappresentatività dei soggetti politici. Conseguenze non sanabili dagli annunciati “interventi di garanzia” o da una legge elettorale che, comunque, si auspica proporzionale.
Altrove abbiamo già scritto le ragioni del nostro No a questa riduzione, basata su motivazioni demagogiche, fragili, incongrue. Le ricordiamo in sintesi.
1) Risparmio, sintetizzato nel fuorviante slogan: “1 miliardo per i cittadini”.
“Tagliare le poltrone” è slogan già usato da Renzi. Si può però seriamente pensare di risparmiare sulla democrazia? I Costituenti, nell’immediato dopoguerra, momento ben più difficile di quello attuale, non si fecero condizionare dalla spesa che, comunque, “dev’essere messa in rapporto al bilancio” (Luigi Einaudi, II Sc., verbale del 18.9.1946)
In questo caso il risparmio (500 mln lordi per anno) ne rappresenta lo 0,007% (Osservatorio Cpi): meno di un cappuccino all’anno per cittadino (Codacons).
Poi perché non si è iniziato col taglio degli indennizzi, da sempre bandiera del M5S?
2) Efficienza, per velocizzare le leggi.
Statistiche alla mano però non si fanno poche leggi e non è vero che occorra sempre tanto tempo: per alcune sono bastati pochi giorni (come 20 per il Lodo Alfano) e la velocità non è, di per sé, una garanzia per i cittadini. Per il Salva-Italia di Monti e Fornero occorsero solo 16 giorni, generando “gli esodati”.
Una “maggior velocità” nelle dinamiche parlamentari è comunque già ottenuta attraverso i regolamenti parlamentari. Senza contare che l’eccessivo ricorso a decreti legge e questioni di fiducia da tempo comprime il dialogo politico e ridimensiona la funzione dei Parlamentari, indipendentemente dal numero.
3) “Standard europei”, fantomatici, non se ne parla in Costituzione o altrove.
Vero è che l’Italia ha il maggior numero di parlamentari elettivi in Europa, ma è una lettura semplicistica che non tiene nemmeno conto del numero degli abitanti e dei diversi Ordinamenti, alcuni monocamerali. Lo stesso Servizio studi del Senato ritiene che «più agevole a rendersi è la comparazione tra le Camere “basse” […] che sono tutte elettive dirette». Così, da un confronto più congruo (Camere Basse in rapporto alla popolazione) si riscontra che, già in linea con gli altri grandi Stati europei, con questa riforma l’Italia andrebbe all’ultimo posto.
Di ben altra portata le conseguenze, fondamentali nella nostra democrazia rappresentativa.
1) Equilibri istituzionali.
Maggior “peso politico” dei 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica (da 1,6% su 320 senatori a 2,4% su 205) e dei 58 delegati regionali nell’elezione, a Camere congiunte, del capo dello Stato. In relazione poi ai sistemi elettorali si potrebbero aver ulteriori e ben più gravi distorsioni su dinamiche delicatissime come la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, le elezioni dei componenti parlamentari del Csm e le modifiche stesse della Costituzione in relazione ai relativi quorum richiesti. Oltre alle difficoltà di funzionamento delle Camere, da diversi segnalate, e non del tutto sanabili dai regolamenti parlamentari, che dovranno comunque essere rivisti.
2) Rappresentanza dei cittadini.
I Costituenti determinarono il numero dei parlamentari stabilendo delle proporzioni in merito alla popolazione: 1 deputato per 80mila abitanti e 1 senatore per 200mila. Nel 1963 si passò ai numeri fissi attuali e i rapporti oggi sono: 1 ogni 96mila alla Camera e 1 ogni 192mila al Senato, sostanzialmente invariati. Con la riduzione i valori salirebbero rispettivamente a 1 per 151mila e 1 per 302mila. Rapporti che aumentano quando ribaltati sui collegi elettorali, soprattutto al Senato: 1 ogni 800mila e anche oltre.
Evidente che meno facile, diretto e continuativo finisce per essere il rapporto “umano” coi candidati/parlamentari. Occorrerà ricorrere sempre più ai mezzi di comunicazione multimediale che non potranno mai sostituire il confronto diretto, oltre a richiedere maggiori risorse, anche finanziare, per le campagne elettorali, a tutto vantaggio dei più facoltosi.
Al Senato poi il “taglio” non colpisce omogeneamente tutte le Regioni: il Trentino Alto Adige riceve un “trattamento privilegiato” con 3 seggi per Provincia (omaggio per l’autonomia) a danno, nella ripartizione seggi, di altre Regioni. Come la Sardegna, che avrà un rapporto quasi del doppio.
2) Partecipazione delle formazioni politiche minori.
È stato calcolato che al Senato si creerebbero soglie implicite dal 10% in su, escludendo così anche formazioni politiche con risultati ragguardevoli. Con ripercussioni nei lavori parlamentari e, in particolare, nella partecipazione alle Commissioni. Soprattutto al Senato, dove si passerebbe dagli attuali 20 componenti circa a 12 o 13. I gruppi maggiori potrebbero mandarne in ciascuna 2 o 3. Quelli medi e piccoli forse solo 1 (e su più commissioni). Le leggi elettorali maggioritarie possono aggravare la situazione, ma nessun proporzionale, per quanto puro, potrà “creare nuovi seggi” disponibili per le minoranze.
Occorre quindi riconsiderare questa riforma che sembra avvantaggiare solo capi politici e segreterie, che potranno esercitare maggior controllo su candidati (prima) e sui parlamentari (poi).
Magari si valuti la abolizione (vera) del Senato. La cui differenziazione originale dalla Camera verrà del tutto meno qualora dovessero passare le annunciate riforme sull’età degli elettorati rimanendo, forse, la sola distinzione “regionale”.
Vi è ancora la possibilità di parlarne: il Referendum costituzionale! Ulteriore baluardo di garanzia e la cui natura oppositiva si evince dai verbali della Costituente e dalla logica stessa del percorso disegnato, come la mancanza di quorum. Come nel 2016, quando i cittadini, informati, si sono espressi sulla riforma di Renzi ribaltando i pronostici iniziali.
Così, nel silenzio dei media, si stanno raccogliendo le firme necessarie per indirlo. Sia tra i cittadini, con le relative difficoltà anche burocratiche, che in Parlamento e dovrebbe interessare chiunque si batte per una democrazia più partecipata e diretta ma non per questo meno… rappresentativa.
Francesco Montorio fa parte del Comitato per la Democrazia costituzionale di Milano e aderisce all’associazione “Comma2-Lavoro è Dignità”
Sul referendum costituzionale v. editoriale di Simona Maggiorelli