Laicità e antifascismo sono due pilastri della nostra democrazia. Ma nell’articolo 7 della Costituzione che blinda il trattato siglato da Mussolini con la Chiesa, e rinnovato da Craxi, si annidano le scorie clericofasciste con cui l’Italia non ha mai fatto veramente i conti. L’eliminazione del segreto pontificio sui crimini commessi dai preti pedofili è l’occasione per chiedere alla Santa Sede di rivedere il Concordato. A meno che non si voglia diventare uno Stato teocratico, tanto più va fatto ora che - come sostengono in tanti - Bergoglio ha riportato la Chiesa a fare politica (in Italia). In realtà, come abbiamo sempre detto e dimostrato, questo accade dal 13 marzo 2013. Ben vengano comunque quelli che se ne accorgono (o fanno finta di) solo oggi...

Il cappellano di Corzano, don Francesco Piccinotti, vanta un record di cui non andar fieri. È lui il protagonista del primo caso noto di pedofilia di matrice clericale dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Era il 30 aprile 1864. In base all’accusa «del crimine di libidine contro natura», nei confronti di diverse persone, tra cui un bimbo di 7 anni, la Corte d’Assise di Milano lo condannò a sette anni di reclusione. Notizie di questo tipo in quegli anni erano rare. La profonda trasformazione dell’assetto geopolitico della Penisola in seguito alla breccia di Porta Pia e alla fine dello Stato Pontificio, nel 1870, contribuì a ridurre sensibilmente le possibilità che in Italia accadessero crimini del genere. Grazie al progressivo radicamento di un “sentimento” laico nell’opinione pubblica, il controllo da parte delle autorità civili nei confronti della popolazione clericale fu profondo e capillare.

Nell’Archivio centrale dello Stato a Roma ci sono centinaia di faldoni dedicati alla schedatura, predisposta dai prefetti, di altrettanti sacerdoti con i “vizi” più disparati: gioco d’azzardo, alcool e così via. Si andò avanti così per alcuni decenni fino a quando, tra il 1904 e il 1907, una serie di scandali travolsero diversi istituti cattolici lungo tutto lo Stivale. Citiamo ad esempio il collegio dei Marianisti di Pallanza sul Lago Maggiore, il collegio Greco-Milanese dove erano state violentate delle ragazzine, una scuola di Trani in Puglia, l’Asilo della Consolata di Milano con il cosiddetto “Scandalo Fumagalli” (dal nome della sedicente suora Giuseppina Fumagalli che gestiva l’asilo), che vide l’arresto di cinque donne e di un prete, tale don Riva, per abusi sessuali su una fanciulla, e l’educatorio di Alassio in cui don Bretoni viene accusato di sevizie “sessuali” ai danni di un tredicenne. Stupri, maltrattamenti, abusi su adolescenti, fanciulle e bambini prepuberi: le accuse nei confronti di sacerdoti, educatori e, nel caso di Trani e Alassio, anche di suore, erano pesantissime. Sebbene non sempre risultassero del tutto verificate, le accuse evidenziavano un diffuso malessere anticlericale e antireligioso, e una pretesa di laicità dello Stato, che partivano da molto lontano nel tempo e che si propagarono grazie anche al fatto che gli spazi per la Chiesa nella scuola pubblica erano sempre più ridotti. Cosa di cui il Vaticano era perfettamente consapevole. Tanto è vero che il 5 agosto 1907, dopo l’ennesimo scandalo, questa volta al collegio dei Salesiani di Varazze, passò al contrattacco con un comunicato al vetriolo che accusava «la propaganda massonica e socialista di aver imbastito una campagna anticlericale e contro papa Pio X». A far saltare in aria la “polveriera” era stato il nipote quattordicenne dell’ex console francese presso il Regno di Sardegna, Alessandro Besson, il quale in un diario aveva descritto gli abusi subiti, messe nere in costume «interamente adamitico» e rapporti sessuali tra i frati, le suore del vicino collegio di Santa Caterina da Siena e alcuni alunni.

Ben presto anche la stampa cattolica entrò nella mischia senza risparmiare colpi. E fu come gettare benzina sul fuoco. In quasi tutte le grandi città si svilupparono violenti moti anticlericali. Roma, Milano, Venezia, Pisa, Torino, e ancora Mantova, Livorno, Genova, Firenze e Palermo furono teatro delle proteste con un bilancio di un morto e 20 feriti. Un fatto inusuale nell’Italia di Giolitti, il quale di sicuro non poteva essere definito ostile alla Chiesa, ma che rientrava nel più ampio quadro della feroce disputa tra le istituzioni ecclesiastiche, che ambivano (come oggi) a conservare il monopolio secolare dell’educazione dei bambini, e la giovane scuola pubblica dello Stato italiano. La gestione esclusiva dell’educazione e dell’istruzione da parte della Chiesa si era bruscamente interrotta con l’unità d’Italia. Grazie anche a leggi come la Casati del 1859 e la Coppino del 1877 con cui, eccetto per le elementari, si decretò l’abrogazione dell’insegnamento della religione. Non a caso lo Stato unitario fu riconosciuto dal papa solo con l’avvento del fascismo. Come è noto, Mussolini ridette linfa al controllo ecclesiastico della società ripristinando subito l’insegnamento della religione attraverso la riforma Gentile (1923) e mettendo una pietra tombale sullo Stato laico nel 1929 con il Concordato.

Dopo la fine della guerra e con il ripristino della democrazia, la saldatura tra clero e fascismo – foraggiata dai miliardi dei cittadini italiani regalati da Mussolini al papa come risarcimento per la breccia di Porta Pia e centrata sulla visione comune di una società patriarcale dove, solo per dirne qualcuna, la donna gode di diritti molto limitati e i figli sono di proprietà del padre (non vi ricorda il congresso sulla famiglia organizzato a Verona dalla Lega lo scorso marzo?) – fu solo in parte intaccata dai lavori dell’Assemblea costituente. La disputa tra laici e cattolici non produsse solo l’articolo 7 della Costituzione, che di fatto ha blindato i Patti lateranensi di cui il Concordato fa parte e i privilegi che da esso derivano per il mondo clericale. C’è difatti anche l’articolo 33 che riguarda la scuola e lascia la possibilità di istituire scuole private «senza oneri per lo Stato», demandando alla legge l’applicazione. Come ci ricorda la Uaar, «nel dopoguerra la quasi ininterrotta serie di ministri democristiani alla Pubblica istruzione lasciò più o meno invariata la situazione», e dopo il Concilio e il Sessantotto la discussione si incentrò soprattutto sulla qualità della scuola. «Ma l’elezione di Wojtyla a papa, e il ritorno del Vaticano a una visione integralista dell’educazione (sono gli anni dell’ascesa di Ruini, ndr), hanno portato prima all’approvazione delle modifiche del Concordato nel 1985, poi a richieste sempre più pressanti di finanziare l’esangue diplomificio cattolico» prontamente soddisfatte da governi di ogni colore a scapito della scuola pubblica e in spregio alla Costituzione.

Si parla tanto di discontinuità del Conte 2 dal Conte 1, molto meno, per non dire mai, di discontinuità con tutto ciò che rappresenta il passato fascista (e in varie forme anche il presente) del nostro Paese. L’abolizione del Concordato, il trattato internazionale che regola i rapporti tra l’Italia e la Santa sede con l’imprinting di Mussolini, sarebbe un importante segnale in questa direzione. E con una fava si prenderebbero i classici due piccioni, o forse anche di più. L’eliminazione dell’articolo 4 del Concordato – nel quale si dà facoltà ai vescovi di non collaborare con le nostre autorità – segnerebbe infatti anche la fine della limitazione formale e sostanziale all’attività della magistratura specie nei casi di pedofilia che hanno come sospettato un prete. Non sarebbe cosa da poco. Con picchi di inaudita diffusione negli ultimi 50 anni, la storia d’Italia è attraversata da vicende come quella di don Piccinotti. A fine agosto del 2018 il gesuita tedesco Hans Zollner, membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori (istituita del 2015 da papa Francesco) e presidente del Centre for Child Protection della Pontificia università gregoriana, in un’intervista all’AgenSir, l’agenzia dei vescovi, ha significativamente dichiarato: «Troppi sacerdoti, tra il 4 e il 6 per cento nell’arco di 50 anni (1950-2000), hanno agito contro il Vangelo e contro le leggi». Si riferiva agli scandali sugli abusi della Chiesa in Pennsylvania tuttavia ha poi aggiunto: «Sarebbe stupido pensare che in altri Paesi come l’Italia non sia accaduto lo stesso». Queste dichiarazioni sono state completamente ignorate dai media italiani (tranne Left), ma per farsi un’idea delle dimensioni del fenomeno che Stato e Chiesa non vogliono affrontare basti dire che in Italia risiede la più ampia popolazione ecclesiastica del mondo, circa 30mila persone.

Il 2019 si è chiuso con l’annuncio della Santa sede dell’eliminazione del segreto pontificio sui processi per pedofilia. D’ora in poi, se abbiamo interpretato correttamente la dichiarazione ufficiale del segretario di Stato il cardinale Parolin, le magistrature civili di qualsiasi Paese potranno richiedere l’accesso agli atti dei processi canonici e agli archivi delle diocesi. Il segreto pontificio è uno dei principali “responsabili” della diffusione esponenziale della pedofilia di matrice clericale nel mondo. Pertanto, siamo in presenza di un importante segnale in direzione della trasparenza e della collaborazione con le istituzioni straniere e internazionali. Quale migliore occasione per il governo italiano di alzare il telefono e chiedere a papa Francesco un incontro per rivedere gli accordi del 1929-85? L’articolo 7 della Costituzione lo permette: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Quindi, contrariamente a quello che alcuni sostengono, il Concordato può essere abolito o modificato. In questo caso i Patti subirebbero una modifica, come del resto è accaduto nel 1985 rispetto a quelli del 1929. Insomma, rivedere un trattato internazionale non è un’impresa impossibile. Anzi. Occorre per prima cosa la volontà politica dei nostri “governanti”, dopo di che si alza il telefono e si chiede alla controparte di incontrarsi per avviare una trattativa. Tanto più ora è possibile farlo dato l’avanzato processo di secolarizzazione della società italiana. Se non altro lo è molto di più rispetto al 1929 e al 1985. Quindi la “volontà politica” avrebbe le spalle coperte dal sentire popolare. In tal senso, l’abolizione (o una modifica significativa) del Concordato avrebbe anche una profonda valenza di ordine “socio-culturale”. Significherebbe rimettere in discussione, in coerenza con il processo di secolarizzazione della società italiana, il peso – enorme e ingiustificato – dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. Si darebbe così un enorme contributo a riportare l’articolo 33 nei binari di una visione laica della scuola e della società in generale, quindi dello Stato. Laicità che non a caso la Corte costituzionale in ben tre sentenze ha definito uno dei pilastri della nostra democrazia. Aggiungiamo noi: insieme all’antifascismo.

L’articolo di Federico Tulli è tratto da Left in edicola fino al 16 gennaio

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Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).