Ormai lo abbiamo capito. Se c’è Favino il film è fatto. Non c’è dubbio che la sua monumentale interpretazione di Bettino Craxi – dopo le stupende prove di dare volto, voce e postura a Masino Buscetta e prima ancora a Pino Pinelli – spinge la pellicola di Gianni Amelio più in alto di quanto sarebbe potuta andare senza il grande lavoro di immedesimazione dell’attore romano, che rende pallidissima, va da sé, la prova interpretativa degli altri. Il regista si è misurato con un personaggio difficile che è ancora oggi parte della nostra cronaca viva, sebbene la sua azione si sia svolta in un tempo ormai lontano – una didascalia apre il racconto: “In Tunisia alla fine del secolo scorso”.
Amelio dice che ha buttato lì l’idea di fare un film su Craxi per liberarsi dalla proposta poco allettante di farne uno su Cavour: chissà se è andata proprio così, comunque il suo lavoro non è certo improvvisato. Tutt’altro. Ma non aspettatevi la biografia di Bettino perché la scelta cade sui giorni di Hammamet, in definitiva sul crepuscolo del potere di un uomo che è stato potente e che si ritrova completamente solo, nel deserto, accanto ad un vecchio arnese della Guerra fredda – un carro armato.
Il regista usa le sue armi migliori per umanizzare al massimo il personaggio, usando un tema che gli è caro – i rapporti padri-figli/e – e rappresentando, respiro dopo respiro, la sofferenza della malattia e della solitudine. Quando il potere è visto lì, in quella fase decadente, il diabete aggressivo, il tumore, le flebo, il letto di ospedale, siamo sempre più indulgenti, cediamo alla partecipazione emotiva, alla compassione. Eppure Amelio non si sottrae affatto ad una visione più politica: è che non la troviamo nell’immediatezza di un giudizio: “esule politico” o “latitante”, “vigliacco” o “resistente”, ma nell’aver collocato il personaggio nel suo tempo politico.
È lì che si consuma lo scempio. Il finanziamento illecito ai partiti nasce…
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