Carlo ha 58 anni, ha iniziato a lavorare nel 1987 come artigiano ma dopo 15 anni ha dovuto chiudere la sua attività, come tanti. Poi ha svolto una serie di lavori part time e tra questi alcuni in cooperative di servizi con appalti stipulati con enti pubblici. Chissà perché, però, le ore di lavoro erano di più rispetto al contratto, venivano anche pagate, ma i contributi rimanevano sempre quelli, rigorosamente al 50%. Tre anni fa ha ricevuto la famosa busta arancione dell’Inps con la previsione della pensione che prenderà nel 2029: mille euro al lordo, quindi 900 euro più o meno al netto. Ma Carlo tutto sommato è un privilegiato, pur avendo passato anni di semi-sfruttamento, perché ha cominciato a lavorare prima della riforma Dini del ’95 che ha introdotto il calcolo della pensione con metodo contributivo al posto di quello retributivo.
«I miei colleghi più giovani anche loro part time si troveranno in una situazione ben peggiore», dice. I compagni di Carlo fanno parte di quella massa indefinita di lavoratori che, tra periodi di disoccupazione, impieghi a tempo determinato, in appalto o subappalto, comunque precari, tra 20-30 anni riceveranno pensioni da fame, se non si interverrà in qualche modo.
«In pratica avranno una pensione abbondantemente al di sotto della soglia di povertà se non si interviene cambiando l’assetto pensionistico», dice Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia e politica del Welfare State, che ha curato il rapporto E sempre più anziani soli tra 20-30 anni a stento basteranno a se stessi: un netto peggioramento rispetto ad oggi visto che, come fotografa l’Istat, oltre sette milioni di famiglie basano per tre quarti il loro reddito sulla pensione del nonno. Pizzuti in più di un’occasione ha parlato di «bomba sociale delle pensioni». Adesso, a inizio 2020, il tema sembra finalmente diventare centrale nel dibattito politico, anche per…
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