Eclettico, visionario, l’artista cretese che inaugurò il secolo d’oro della pittura spagnola, fino al 10 febbraio, è protagonista di una spettacolare mostra al Grand Palais

È un impressionante viaggio nell’universo di El Greco quello che il Grand Palais offre fino al 10 febbraio. Un vorticoso percorso che corre di sala in sala, in un susseguirsi di prospettive inaspettate, fino all’apice de L’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse (1608-1614). Davanti a noi un tripudio di colori brillanti, di forme e figure umane allungate che ardono come torce nella notte, una ridda di visioni, mentre santi e predicatori in primo piano catturano il nostro sguardo con piedi leggeri sulla terra pietrosa, mantelli troppo grandi che avvolgono i loro corpi nudi, mani eleganti e volti di madreperla che non hanno nulla di serafico, ma anzi si rivolgono increduli, inquieti e restii alla chiamata divina.

Il cardinale Guevara

Fin dai suoi esordi cretesi, il talento di El Greco si palesò in opere eterodosse nate all’incrocio di culture diversissime fra loro, nel segno di una originale contaminazione. Nella sua arte si ritrova la memoria delle icone bizantine, abbaglianti di oro e di riflessi, in mezzo alle quali il pittore di origine cretese era cresciuto e si era formato. Ma si rintraccia anche il fascino del colorismo veneto assimilato e ricreato in modo personalissimo dopo un soggiorno veneziano che, dal 1567, lo portò a conoscere da vicino l’opera di Tiziano e di Tintoretto, dal quale El Greco mutuò la tensione mistica e lo studio della luce simulando scorci inediti con modellini di argilla. In alcuni dipinti pare di scorgere anche qualcosa del tanto vituperato Michelangelo, di cui a Roma il pittore cretese si offrì sfrontatamente di ridipingere il Giudizio universale, facendosi così cacciare dai Farnese.

Fu la sua fortuna, perché rifiutando la nitida e precisa pittura tosco-emiliana, andandosene dall’Italia, El Greco incontrò la più notturna tradizione spagnola. Non tanto alla corte di Filippo II quanto nella piccola e arroccata Toledo, dove esplose il suo genio, guardato con sospetto dai committenti controriformisti per il suo dispiegarsi ardito in un teatro delle emozioni ai limiti dell’eterodossia. Al Grand Palais tutta questa sua bruciante e solitaria traiettoria è ripercorsa in modo spettacolare in saloni bianchi che si aprono l’uno sull’altro senza soluzione di continuità.

Dopo le celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte in Spagna questa esposizione parigina curata da Guillaume Kientz con una settantina di opere provenienti da Paesi lontani fra loro – dall’Ungheria agli Usa passando per la Spagna – è di gran lunga la più completa e avvincente fra le tante dedicate negli ultimi anni a Domínikos Theotokópoulos (1541-1614) detto El Greco.

Curiosamente questa è la prima importante retrospettiva che la Francia dedica a questo artista visionario che – dopo secoli di oblio – fu riscoperto nell’Ottocento (anche grazie a Théophile Gautier e a Delacroix) ed esercitò un fascino fortissimo su Cézanne (basta confrontare le sue Bagnanti con l’ Apocalisse di El Greco proveniente da New York) ma anche su tanti protagonisti dell’avanguardia novecentesca.

Fin dalle prime sale, la mostra intitolata semplicemente Greco ne sottolinea l’eclettismo, caratteristica che lo accompagnò dagli esordi con opere sorprendenti come la piccola tempera con San Luca che dipinge la Vergine qui esposta ad incipit del percorso espositivo. Era capace di passare da ritratti di acuta penetrazione psicologica a opere di carattere storico e monumentale orchestrando innumerevoli figure come nella inamovibile Sepoltura del conte di Orgaz, che si trova nella piccola chiesa di Santo Tomé a Toledo.

Quanto ai ritratti al Grand Palais, fra i moltissimi raccolti, spiccano in particolare il Ritratto del fratello Hortensio Félix Paravicino (1609-1611, prestito del Museo di Boston) per la bella e umanissima malinconia e il Ritratto del cardinale Niño de Guevara che al contrario colpisce per la freddezza lucida da inquisitore, con le labbra serrate e la mano aggrappata al bracciolo. Un gesto che evoca il ritratto di Giulio II di Raffaello e che ispirò Velàzquez per il suo Innocenzo X, poi tradotto in chiave feroce da Bacon.

Su una parete isolata scorgiamo la sequenza in più varianti, de Il ragazzo che soffia sul fuoco, a partire dalla prima versione veneziana ispirata a una favola popolare fino a quella del 1585 e proveniente dall’America. Al centro della tela c’è un adolescente con un tizzone nella mano sinistra. Nel primo è solo, in primo piano, il volto violentemente ma sottilmente illuminato dal carbone che brucia: è un prodigio naturalistico, in chiaroscuro, che quasi pare annunciare Caravaggio, che sarebbe nato due anni dopo.

Ma dove El Greco non trova davvero paragoni è la fiammeggiante irruenza dei quadri del periodo iberico dove ogni impalcatura razionale e prospettica viene meno. Dopo il suo trasferimento a Toledo si dischiuse un universo pittorico popolato da perenni adolescenti dalle braccia e dai colli lunghi, dai corpi acerbi, sproporzionati, che lasciano trasparire un mondo interno animato da una tempesta di emozioni. La sua poetica ricca di distorsioni spaziali ed “espressioniste” fu però stigmatizzata dai suoi detrattori come frutto di dimensioni patologiche, fu accusato di megalomania, di soffrire di allucinazioni. Vicenda annosa capitata anche ad altri artisti che si innamorarono della sua opera a cominciare da Cézanne le cui visioni, “a macchie”, baluginanti della montagna Sainte Victoire furono additate dall’invidioso Zola come frutto di un difetto della vista fisica. Nel caso di El Greco feroce fu soprattutto l’attacco dei tradizionalisti che condannarono come blasfemo il modo in cui allungava i corpi e, soprattutto, come li spogliava, contraddicendo i canoni religiosi dell’epoca. Per i liberali illuministi che nel Settecento si affacciarono sulla scena spagnola, al contrario, incarnava l’oscurantismo della Controriforma. Ciò che non volevano vedere era l’artista ribelle, l’uomo libero, iconoclasta rispetto all’arido e razionale realismo, l’artista che libera le forme delle loro catene, che dà forza al colore. Ma se razionalismo e ideologia resero ciechi e stupidi certi critici, per fortuna, la sensibilità artistica risvegliò l’interesse di Picasso all’epoca della rivoluzione cubista e delle Demoiselles d’Avignon, degli espressionisti e persino di Pollock.

 

 

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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