Il virus cinese sta spaventando il mondo, si teme una diffusione pandemica. Si torna a parlare delle epidemie storiche, da quelle del secolo passato a quelle dell’antichità.
Uno dei principali fattori del calo demografico di un popolo in certi periodi storici avvenne per il gran numero di morti sui campi di battaglia e nelle città assediate o quelli deceduti a causa di un’epidemia. Se i due eventi malefici avvengono contemporaneamente è una catastrofe.
A proposito delle rievocazioni della prima guerra mondiale (1915-18) a cento anni da quegli avvenimenti bellici con il loro carico di distruzioni e perdita di vite umane, devono essere ricordati quanti perirono per la diffusione dell’influenza detta “spagnola”. Nell’autunno del 1918 mentre si stipulavano gli armistizi fra vincitori e vinti si ebbe l’acme della letalità di quel terribile virus influenzale diffusosi già nei mesi precedenti. Quell’anno fu definito horribilis perché il virus influenzale interessò sia i Paesi in guerra che gli altri e molti ritennero che ciò condizionò anche l’esito del conflitto perché numerose giovani vite, colpite dalla malattia, morirono e determinarono alcune sconfitte. Complessivamente quell’influenza provocò 40 milioni di morti, la più grave epidemia che abbia colpito il mondo in epoca storica recente.
Queste notizie riportano alla mente una famosa guerra dell’antichità, quella del Peloponneso (431-411 a. C.) fra Sparte e Atene, quando ai morti caduti in battaglia si aggiunsero quelli di un’epidemia ricordata come “la peste di Atene” (anche se moderni studi hanno stabilito che si trattò di tifo, o di altra malattia virale). Un narratore di eccezione di questo lungo conflitto fu lo storico greco Tucidide che lo descrisse cominciando fin dall’inizio quando «previde che sarebbe stata importante, la più notevole tra le precedenti». Lo deduceva dalla preparazione dei belligeranti, e dal fatto che «vedeva il resto dell’Ellade unirsi agli uni o agli altri; parte immediatamente; parte nelle intenzioni». Convinto che scrivere storia del passato fosse difficile per mancanza di documenti sicuri, preferì scrivere su una guerra di cui fu contemporaneo.
Nel Proemio dell’opera getta le basi della moderna storiografia scientifica, si addentra nell’analisi comparativa delle testimonianze, grazie al quale cerca di arrivare alla più esatta ricostruzione critica degli avvenimenti: «Quanto ai fatti veri e propri svoltosi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto, né secondo il mio arbitrio, ma in base alle più precise ricerche possibili su ogni particolare, sia perciò di cui ero stato testimone diretto, sia per quanto mi venisse riferito dagli altri». Altrettanto rigorose sono le sue dichiarazioni programmatiche all’inizio della descrizione della peste ateniese che colpì per primi gli abitanti che vivevano presso il porto del Pireo.
Pericle diede l’ordine di far rifugiare gli ateniesi e gli abitanti dei borghi vicini dentro le mura di Atene. La sovrappopolazione e la scarsa igiene causarono la diffusione della pestilenza. La propagazione del morbo fu senza eguali. Prima di descrivere questa calamità lo storico premette: «Dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che ognuno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati».
La pestilenza e i successi degli Spartani vennero interpretati dal popolo e anche dai soldati opera di Apollo; il dio si era schierato dalla parte degli Spartani e combatteva al loro fianco. Tucidide si rifiutò di credere a tali superstizioni, non concesse alcuno spazio all’intervento degli dei, ma decise di seguire un ragionamento di tipo scientifico, indagando sulle cause, sulle forme in cui si presentò questa pestilenza nella quale morì anche Pericle, e la descrisse in modo impressionante con tensione narrativa, non priva di umanità, con un linguaggio medico e realistico: «Senza alcuna motivazione visibile, all’improvviso, le persone venivano prese da vampate di calore alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano subito un colore sanguigno, ed emettevano un odore strano e fetido. Dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti dolori. Nella maggior parte dei casi, si manifestava anche un singhiozzo con sforzi di vomito che generavano violente convulsioni. Il corpo era rossastro, livido, sparso di pustole e ulcere».
Inutili furono quei rimedi contro le malattie, cui si ricorreva fin da tempi lontanissimi: consultare gli oracoli, pregare nei templi, sacrificare animali. Quel morbo destinato a segnare il declino di Atene, colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana. Si mostrò diverso da uno dei soliti mali. La gente moriva perché nessun organismo, pur forte, era sufficiente a combattere quella malattia. I medici non riuscirono a diminuire il numero delle vittime, non solo per le tecniche inadeguate, ma anche perché erano i primi a morire per il contatto con i malati e i morti.
Tucidide descrisse le conseguenze di questo atroce contagio anche sul piano morale e del costume. Con l’alternarsi della paura e della speranza, venne meno la solidarietà fra gli stessi amici e parenti, la diffusione del male abbrutì e si violarono leggi umane e divine: «L’epidemia diede il segnale al dilagare dell’immoralità in Atene. Gl’istinti, prima nascosti, si sfrenarono dinanzi allo spettacolo dei rapidi cambiamenti: ricchi subito morti, nullatenenti a un tratto ereditieri. La vita e il denaro avevano agli occhi della gente lo stesso effimero valore. Si voleva godere materialmente e in fretta … nessun timore divino, nessuna legge umana li tratteneva … prima che scoccasse l’ora valeva la pena aver vissuto».
La descrizione della peste di Tucidide è un grande affresco di un realismo crudo. In un crescendo drammatico davanti agli occhi del lettore scorrono visioni di una città in preda alla devastazione morale e materiale, immagini di uccelli e quadrupedi che si cibano di cadaveri insepolti ammucchiati gli uni sugli altri; di uomini e donne che vagano nelle strade in cerca di acqua fino a gettarsi nei pozzi presi da sete insaziabile, o a denudarsi perché i loro corpi coperti di pustole non sopportano neppure il rivestimento di abiti leggeri; di alcuni che sfiniti si gettano sul fuoco dove ardono i cadaveri; immagini di morenti abbandonati da tutti per paura del contagio perché il morbo ha prodotto la perdita della pietas anche per i morti o i morituri.
La narrazione è priva di artifici retorici, rapida, asciutta, incalzante ma senza lacrime, la commozione del lettore nasce dalla suggestione che lo scrittore ha ispirato con la sua silenziosa umanità di fronte alla tragedia di una città e dei suoi abitanti, dalla tristezza austera con la quale descrive le sorti e le sventure dei popoli. Hegel scrisse che «l’opera di Tucidide rappresenta il vantaggio che l’umanità ha avuto dalla guerra del Peloponneso».