Chi vince può sperare in una vita migliore, chi perde, e capita quasi sempre, perde tutto. I migranti che tentano la rotta balcanica chiamano “the game” questa loro “avventura”. Sono gli afghani, pakistani e siriani che prima entravano dall’Ungheria e che da due anni sbattono contro i muri innalzati da Orban

Con una discreta dose di ironia, i migranti lo chiamano “the game”, il gioco: si affronta il freddo delle montagne che dividono la Bosnia Erzegovina dalla Croazia, chi riesce a non farsi intercettare dalla polizia di confine arriva fino a Trieste via Slovenia e vince il premio, la speranza di una vita migliore. Chi perde, e capita la maggior parte delle volte, perde tutto: la polizia croata picchia, sequestra giacche, scarpe, telefoni cellulari, e respinge il loser in Bosnia, privo di tutto, fino al prossimo tentativo. Secondo il network Violence border monitoring «nel 2019 almeno 770 persone sono state respinte con l’uso di armi da fuoco nel corso dei push-back, e questi dati rappresentano solo una piccola porzione delle espulsioni illegali che si sono verificate» e che sono per loro natura impossibili da censire con completezza.

Ma la stessa Croazia ha ammesso per il 2019 almeno 9.500 respingimenti. Di sicuro c’è che i trattati Ue, regolamento di Dublino in testa, imporrebbero invece la presa in carico dei migranti da parte del primo Stato membro in cui questi mettono piede, proprio come accade in Italia per quelli che sbarcano nei nostri porti. È così invece che da due anni la Croazia impiega i circa 100 milioni stanziati dalla Commissione europea per la sorveglianza dei confini propri e dell’Unione.

Due anni di rotta bosniaca
La situazione è estremamente critica e dopo lo scorso 19 dicembre, in seguito alla decisione delle autorità di radere al suolo il terrificante campo informale di Vucjak, una discarica in cui stanziavano fino a 900 persone, rischia di deflagrare nelle cittadine di confine di Bihac e Velika Kladusa, ma anche nell’interno, a Tuzla, tappa obbligata dei flussi di migranti provenienti dalla Serbia.

Nella Krajna bosniaca, in particolare, l’assistenza è già scarsa e spesso mal vista: accanto a singoli attivisti che si muovono per aiutare i transitanti sistemati in squat o accampati in strada crescono episodi di intolleranza, con la politica che agita lo spauracchio della sostituzione etnica dei migranti con le migliaia di giovani bosniaci costretti ogni anno a emigrare in cerca di lavoro. Paure che oggi hanno un loro impatto anche in Italia, a maggior ragione in un Paese che non ha ancora del tutto superato i traumi della crisi umanitaria degli anni Novanta: il prezzo è quello di una tendenza alla radicalizzazione che si sta accentuando anche per via dei nuovi ingressi.

La via bosniaca è stata l’ultima in ordine di tempo a ingolfarsi di migranti in cerca dello european dream, a causa della chiusura delle vecchie tappe della rotta balcanica: da quasi due anni in Bosnia confluiscono afghani, pakistani e siriani che prima entravano dall’Ungheria e che ora sbattono contro i muri innalzati da Viktor Orban, e a loro cominciano ad aggiungersi anche marocchini che preferiscono il lunghissimo viaggio per la Bosnia a un Mediterraneo sempre meno sicuro

Campi Oim al collasso a Bihac e Velika Kladusa
La Bosnia e le Nazioni Unite, attraverso l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, hanno risposto all’emergenza aprendo uno dopo l’altro 8 campi di accoglienza formali, di cui l’ultimo a Blazuj, alle porte di Sarajevo, destinato ad…

Il reportage prosegue su Left in edicola dal 31 gennaio

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