Fino ad un mese fa Pechino incuteva terrore per il suo peso finanziario, ora quella paura si è improvvisamente materializzata nel panico da coronavirus. Accompagnato in Italia da sconcertanti episodi di razzismo verso i “gialli”. Ma ad attivarsi è stato anche un Paese diverso e solidale

Solo poche settimane fa il continente cinese si avviava a festeggiare l’annuale ricorrenza del Capodanno lunare con la più grande migrazione che la storia umana avesse mai registrato: come ogni anno e più dell’anno precedente, alcune centinaia di milioni di persone si apprestavano a prendere un mezzo di trasporto per andare a trascorrere le feste a casa o in vacanza, in Cina o all’estero. Le tanto agognate uniche vere vacanze annuali erano arrivate: l’unica occasione di reale distacco dalla frenetica vita lavorativa di oltre un miliardo di cinesi. La loro vita invece ha preso un’altra direzione.

Li Wenliang, giovanissimo oculista della città di Wuhan, ha diagnosticato per primo la presenza di un nuovo virus, subito da lui identificato come più letale di quello della Sars che, fra il 2002 e il 2003, aveva già devastato la Cina. L’appello del medico è stato censurato come procurato allarme, ma di lì a poco le autorità hanno dovuto riconoscere il merito di questo medico, poi infettatosi, che ha pagato con la sua stessa vita la sua scoperta, novello dottor Semmelweis cinese.

Nel giro di poche settimane la Cina è piombata in uno spettrale isolamento, la città di Wuhan e tutta la popolosa regione del Hubei è stata posta in quarantena e via via il periodo di vacanza a casa di centinaia di milioni di cinesi si è trasformato nella più grande quarantena di massa che la storia ricordi.
Le città cinesi, fino a poche settimane fa solcate da milioni di persone, che freneticamente giorno e notte senza sosta le attraversavano con un dinamismo per noi inconcepibile, sono scivolate in una sorta di spettrale immobilismo. Tutto sembra essersi fermato o rallentato. Mentre nello Hubei la quarantena resta totale, in altre città alcuni stanno tentando di tornare al lavoro. Le persone escono di casa il meno possibile non solo per paura di contrarre il virus, ma anche di essere trattenute e messe in quarantena nelle strutture sanitarie se gli venisse riscontrata una alterazione febbrile durante uno delle migliaia di controlli, che avvengono ad ogni angolo della strada e all’ingresso di qualunque edificio.

Decine di migliaia sono gli infettati, a volte ricoverati in ospedali di fortuna, molto spessoprivi di cure specialistiche, perché in fondo non esiste una vera cura o perché di fronte a tali numeri sembra impossibile immaginare una qualunque forma di assistenza sanitaria. Un migliaio almeno i morti ai quali non è stato possibile organizzare una qualche forma di esequie, perché portati ai crematori in tutta fretta. Decine di milioni sono i reclusi in casa, in attesa che l’epidemia passi. Per fare un solo esempio…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 14 febbraio

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