(So che non è elegante citarmi, non si dovrebbe fare. Ma ho scritto un libro che molti definiscono giustamente dispotico, è un libro che racconta di un mondo che scivola in fondo all’orrore. C’è una lettera di una donna, alla madre, che vede quello che accade intorno. Pensavo che valesse la pena rimettere qui l’incipit. Mi si perdoni l’autopromozione)
Cara madre, Ti scrivo in fretta e di nascosto e con dolore. Le comunicazioni con l’esterno sono regolamentate dal controllo asfissiante delle autorità municipali e Ciro è l’uomo che per conto del sindaco controlla la corrispondenza in entrata e in uscita, le conversazioni telefoniche sono registrate. So mamma che questa lettera ti coglierà ti sorpresa. Non è vero che sto bene, non è vero che la bambina è tranquilla, no, non stiamo tutti bene. Stiamo male. E va male. Malissimo. Non credere a niente di ciò che hai sentito uscire dalla mia bocca. Niente. Ogni nostra telefonata in questi mesi è stata una recita che mi sono imposta illudendomi che qualcosa cambiasse, sperando che qualcuno fermasse questa discesa verso il baratro e confidando che il mondo non permettesse che la città in cui vivo con mia figlia si trasformasse in miniera di odio. Mi vergogno, mamma, di ogni volta che ho creduto di essere disperata prima di oggi. In città si respira una ferocia che sta nelle piccole cose: gli anziani mal sopportati, i malati trattati con sufficienza, i bambini continuamente zittiti. Non è solo questione di quei poveri diavoli che arrivano morti dal mare. Mi sono ripetuta cento volte che a quelli avremmo anche potuto abituarci, come succede alle infermiere degli ospedali per malati terminali, con una pietà levigata dall’ordinarietà di cadaveri sbattuti sulla barriera. Invece questa è fame. La fame di chi ogni giorno si allarga un centimetro di più lo stomaco e domani avrà bisogno di più carne per sfamarsi. Mamma, quello che senti e vedi per radio e alla televisione è niente. I nonni portano i nipoti tenuti per mano a osservare i cadaveri che sbattono sul plexiglass prima di accumularsi nelle tubature e scolare verso la fabbrica. Le donne si scambiano complimenti per l’ultima borsa ambrata di pelle di quelli, le carbonelle in giardino arrostiscono le mani e i piedi e le cosce di quelli, poi ci si lamenta dei capelli trovati tra la carne, delle interiora pulite male dal macellaio del supermercato, del cuoio sul divano fatto con uno di quelli non abbastanza resistente. Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia. La famiglia non esiste più, qui.
Buon giovedì.