«Dopo l’incendio doloso al magazzino delle ong che operano sull'isola - racconta Elena De Piccoli, attivista - abbiamo detto ai poliziotti di sentirci minacciati. Ci hanno risposto che non potevano far niente»

«Qui è tutto fuori controllo. Al momento mi sembra che siamo tutti in pericolo». A parlare in questi termini è Elena De Piccoli, attivista dell’associazione Stay human. “Qui” è il luogo dove Elena si è trasferita dallo scorso luglio: l’isola greca di Chios, vicinissima a Lesbo e alla Turchia. “Qui” si trova il campo profughi di Vial (delle cui condizioni ci siamo occupati con reportage e approfondimenti su Left del 14 febbraio)

Il pericolo, per tutti, ha preso forma concreta la notte fra il 3 e il 4 marzo, con l’incendio alla Chios warehouse, punto d’appoggio per donazioni usato dalle diverse associazioni presenti sull’isola, Stay human inclusa. Incendio che ha completamente distrutto il luogo e tutto ciò che c’era dentro, mettendo anche a rischio la vita di alcune persone in quanto la warehouse era al piano terra di una palazzina abitata, poco distante dal centro della città. Incendio di natura dolosa che è solo l’ultimo di una serie di episodi di minacce e violenze subite dagli attivisti e dai cosiddetti “solidali”, gli abitanti di Chios che hanno iniziato ad aiutare i migranti prima ancora dell’arrivo delle ong. E che ora collaborano con loro.

La warehouse di Chios dopo l’incendio di natura dolosa. Credits: Elena De Piccoli

«Nell’ultimo mese non erano mancate minacce via social – racconta Elena, raggiunta via telefono nelle concitate giornate seguenti all’incendio – peggiorate due settimane fa, quando, durante una manifestazione contro le violenze della polizia verso i migranti, si sono presentate persone armate di coltelli a minacciare i manifestanti». Le stesse che negli ultimi giorni stanno bloccando gli accessi al campo di Vial. «Sono i fascisti della città – precisa Elena – e non lo dico per nostre deduzioni, ma perché loro stessi si vantano fieramente e apertamente di esserlo».

A tutto ciò si somma ulteriore preoccupazione e necessità d’agire. Mentre scriviamo Elena ci racconta che un’altra associazione con una warehouse funzionante ha ricevuto la visita di uno dei fascisti che, senza mezzi termini, ha detto agli attivisti che se non avessero chiuso il punto d’appoggio l’avrebbero bruciato. E la polizia? «Dopo l’incendio – racconta Elena – abbiamo detto ai poliziotti di sentirci minacciati. Ci hanno risposto che non potevano far niente, di chiamare il numero per le emergenze e che comunque sarebbero stati troppo occupati per aiutarci». Ancor più raggelante è il commento di uno dei solidali di Chios riportato da Elena: «Non lo sai che buona parte dei fascisti dai quali ci sentiamo minacciati sono dentro quell’ufficio di polizia?».

Situazione fuori controllo a Chios, dove da giorni le associazioni non ricevono più alcun aggiornamento sui numeri dei profughi in arrivo, che, dopo le proteste dei fascisti, vengono portati non più al campo di Vial ma in un vecchio edificio abbandonato in città. La certezza, per loro, è che verranno deportati, e non potranno fare richiesta d’asilo. Non una novità, vista la sospensione del diritto d’asilo decisa dal governo greco. Novità che invece ci saranno eccome a Chios per i migranti. Ma non di natura migliorativa. E che riguardano la costruzione di un nuovo campo da parte del governo greco, che dovrebbe essere ultimato entro luglio.

«Il nuovo campo che hanno in mente – racconta Elena – è pensato per sostituire quello di Vial, potrà contenere circa 1.100 persone (quanto quello attuale) ma sarà una vera e propria prigione. Un campo di detenzione dal quale i migranti potranno uscire solo con permessi speciali riguardo le loro pratiche burocratiche o attività simili. Non potranno uscire neanche per questioni mediche, perché, dicono, nel nuovo campo ci sarà una clinica interna. Cosa che ci preoccupa non poco visto che una simile struttura c’è già a Vial ma non funziona praticamente mai». Nuovo campo che sorgerà in una zona ancor più isolata, a 18 km dal centro e nascosto tra le montagne dell’isola. L’intento, inequivocabile, è quello di nascondere il più possibile i rifugiati, provando a renderli invisibili agli occhi del mondo. Come conferma la stessa Elena.

Resistere e opporsi a tutto questo non è facile. Da un lato, sono poche le persone che appoggiano i rifugiati tra la popolazione di Chios. E il clima è sempre più difficile. «Tempo fa – racconta Elena – ero in un bar con 3 rifugiati e la cameriera ci ha detto che le persone come noi non erano gradite in quel posto». Parole che evocano il peggior razzismo. Dall’altro, le violenze fasciste sono reali, perpetuate e impunite. «Al momento – confessa Elena – manteniamo un basso profilo. L’idea è far calmare un po’ le acque e riprendere le attività a pieno ritmo».

Ma proprio un contesto così difficile può generare nuove reazioni. «Prima di tutto ciò non c’era grande coordinamento tra le associazioni – confessa Elena – ora invece facciamo davvero rete, collaborando e proteggendoci a vicenda. Per opporsi a tutto questo è essenziale essere uniti nella protesta e dare il più possibile visibilità a quanto succede a Chios. Per denunciare abbiamo lanciato una petizione firmata da tante associazioni, una lettera aperta scritta da noi e rivolta al Parlamento europeo, perché dobbiamo continuare a fare tutto il possibile». Prendendo forza da gesti concreti.

«Il giorno dopo l’incendio – conclude Elena – nonostante il clima c’è stata comunque una manifestazione. Vedere le persone che avevano fondato la warehouse scendere in piazza, con gli occhi lucidi ma con il sorriso, è stato per me un grande esempio di forza. Possiamo solo prendere ispirazione da loro. Se ce la fanno loro, mi sono detta, noi non possiamo arrenderci». Anche perché il fronte a cui opporsi è ampio. Con un governo greco che si accanisce contro i migranti per respingerli in ogni modo. Lasciando mano libera alle organizzazioni fasciste. E un’Europa che, per bocca della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, definisce quella stessa Grecia «il nostro scudo». Di nostro, ci permetta, non c’è proprio niente.

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Per approfondire, leggi la cover story di Left, con approfondimenti e reportage da Lesbo e dal confine tra Grecia e Turchia 

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