In Europa i sistemi sanitari hanno da tempo introdotto espliciti o dissimulati criteri di selettività nelle cure, passati attraverso la riduzione della spesa sanitaria. Più di venti anni di riforme sanitarie, iniziate in Gran Bretagna e via via nel resto d’Europa

Per non rimanere, o anche solo credere di non rimanere sommersi occorre evidentemente un senso cinico della realtà. L’Italia è sommersa e il resto di Europa peggiora sempre più, seguendola. Prima la Banca centrale europea con Christine Lagarde non ha teso la mano; poi con il diffondersi dell’emergenza il governo europeo ha avuto un inevitabile rigurgito di coscienza, acconsentendo a spese fuori dal deficit e aiuti di Stato. E la Germania ha annunciato un suo piano di intervento per 500 miliardi da veicolare attraverso la KfW, la banca tedesca per lo sviluppo. Fare apparentemente da sé, per salvarsi. Per gli altri, si vedrà. E bisognerà ricordarsi delle parole e delle scelte della Lagarde, che rimarranno per cinismo e stoltizia: ha detto di non essere lì per ridurre le tensioni dello spread sui mercati e ha offerto solo strumenti vecchi e deboli per mali nuovi. Come se il contagio non riguardasse tutta l’Europa. Dove si adottano ormai provvedimenti sanitari prossimi o uguali a quelli italiani.
Nessuno dei sistemi sanitari europeo è adeguato, così come non lo è quello italiano, ad affrontare l’emergenza sanitaria di un virus che ammala di polmonite acuta il 20 percento dei contagiati e uccide i più vulnerabili, anziani e debilitati già da altri mali. In Europa i sistemi sanitari hanno da tempo introdotto espliciti o dissimulati criteri di selettività nelle cure, passati attraverso la riduzione della spesa sanitaria. Più di venti anni di riforme sanitarie, iniziate in Gran Bretagna e via via nel resto d’Europa. Incidendo specialmente sulla spesa ospedaliera, che ha dovuto ridursi a partire dai costi rilevanti per la cura dei malati acuti e per i servizi di emergenza. La Germania ha la maggiore, per così dire, dotazione di letti per cure intensive in Europa, 29 ogni centomila abitanti; circa la metà e anche meno gli altri Paesi. Le tre precedenti pandemie, ultima quella del 2009, non sono state sufficienti a far cambiare passo. Si dovrà fare. La resilienza di una collettività è largamente nel suo sistema sanitario, e non secondariamente in quella parte costosa ma essenziale destinata all’emergenza, per la quale il sistema privato non ha convenienza e della quale il sistema pubblico ha ritenuto di potersi alleggerire. Ora è la drammatica resa dei conti. Cui solo l’Inghilterra sembra volersi piegare scegliendo di fare poco o nulla, contando, senza alcuna certezza del contrario, di poter così ridurre le perdite economiche al prezzo di quelle umane.

Intanto i dati sulla diffusione del virus in Europa sono tristemente eloquenti ma non confrontabili. Nel senso che nessuno si è affannato come invece ha fatto l’Italia a cercare il virus ovunque; ed i dati sui decessi, diversamente dall’Italia, non sembrerebbero sempre includere nel numero dei morti da virus quelli affetti anche da altre patologie concorrenti. Il 20 febbraio i contagiati in Germania erano 16, in Francia 12, in Inghilterra 9. In Italia solo 3. Poi tutto è cambiato. Per i virologi a quella data lo sciame virale era già in Europa e apparentemente più in Germania che altrove. L’Italia è diventato il vero malato. Ora la Spagna e la Francia. Prima si avvertiva in Europa l’idea che l’Italia avesse ecceduto nelle misure sanitarie, fino all’estrema serrata del Paese. Adottando provvedimenti economicamente disastrosi. E andando oltre le possibilità del suo sistema sanitario, ostinatamente universalistico senza averne i mezzi. Salva la esemplare capacità e abnegazione che il suo personale medico e paramedico sta dimostrando oltre ogni immaginabile misura. Per sovrappiù, il sistema sanitario italiano non è uno, sono venti. E’ il federalismo sanitario al quale ancora manca la fondamentale definizione dei livelli essenziali di prestazione. Ed in cui i sistemi migliori per efficienza non si differenziano significativamente dai peggiori per numero di dipartimenti di emergenza sul totale delle strutture ospedaliere, che è in media del 55 percento: con il 42,9 in Lombardia ed il 40,3 in Calabria, il 70 in Veneto ed il 22 in Puglia, ultima in Italia; sono in media 8,42 per centomila abitanti i letti per terapia intensiva; e sono in media 2,9 ogni mille abitanti i letti per acuti tra privato e accreditato: al meglio 3,6 in Molise e al peggio 2,5 in Calabria, 3,1 in Lombardia. Questi i numeri della sanità alleggerita, che si fa drammatica in emergenza. In Italia come nel resto d’Europa. E poi venti governatori delle rispettive regioni e sanità che hanno affrontato inizialmente l’epidemia ciascuno per suo conto senza un necessario coordinamento, in un profluvio di numeri opportunamente diffusi ma troppo spesso interpretati senza scientificità: così abbiamo avuto stime di mortalità calcolate come medie insensate tra numero di contagiati e decessi, laddove il numero dei contagiati è ovviamente molto più ampio di quello verificato, senza considerazione della incidenza per età, fino alla vanità dei 240.000 morti stimati da una fondazione e diffusi giornalisticamente. Ma va detto che malgrado l’iniziale dannosa confusione e le indecisioni e gli annunci, aver misurato diffusamente l’epidemia e aver reso pubblici i numeri è stata una scelta di grande merito e trasparenza. Mentre fuori d’Italia i numeri dell’epidemia circolavano, e in parte ancora circolano, in misura molto controllata, anche opaca. E comunque cresceranno.

Gli effetti economici globali sono già evidenti, certo già più per l’Italia. Gli effetti della pandemia del 2009 furono riassorbiti in un anno. L’attuale non ha paragone. Le stime molto prudenziali sulla riduzione del PIL italiano sono al minimo del 3 percento. Con un settore, quello del turismo, che è generalmente debole di liquidità e frammentato, e perciò particolarmente esposto in una crisi che lo coinvolge totalmente e che per quest’anno approssimerà allo zero i profitti ma non i costi. Ed in generale la liquidità è un problema diffuso nelle piccole imprese, inadeguate a fronteggiare una crisi profonda e prolungata. Occorreranno interventi ampi e diversamente commisurati alla specificità dei settori più colpiti. E l’Europa dovrà decidere se ostacolare o favorire questi interventi. I salvati, che saranno solo i meno sommersi, dovranno compiere azioni certo diverse da quelle annunciate da Lagarde: incredibilmente non è stata adottata nessuna riduzione del tasso di interesse, solo una facilitazione nei criteri di accesso da parte di piccole e medie imprese ai finanziamenti bancari (TLTRO) e un ulteriore quantitative easing per 120 miliardi. Questi non sono provvedimenti che possono fronteggiare una crisi della portata di quella solo iniziata. Si dovrà rivedere a fondo l’ortodossia delle regole di bilancio, che ha quantomeno ritardato la risalita dalla crisi del 2008, e si dovrà lasciare ai singoli stati una maggiore libertà di azione, per quanto finalizzata e pianificata, ben oltre l’annunciata sospensione del patto di stabilità. Perché non tutti hanno a disposizione una banca pubblica per gli investimenti come quella tedesca, che può operare fuori del bilancio pubblico. L’alternativa sarebbe nella tentazione di trattare i più sommersi come si è fatto a suo tempo con la Grecia.