Quando tutto questo finirà (e ci vorrà ancora non poco tempo), le domande inevase che esistevano prima della crisi non saranno scomparse. Se mai se ne aggiungeranno di nuove

Quando l’emergenza da coronavirus sarà finita, quando torneremo alla normalità, bisognerà pure riflettere su molte cose che la crisi ha messo in evidenza, perché non è affatto scontato che avremo capito, come si tende semplicisticamente a dire.
Non è scontato, storicamente, che dopo aver superato le tragedie si faccia tesoro degli insegnamenti: dopo l’olocausto se ne sono succeduti altri (e guerre intestine jugoslave, la Siria, la tragedia Curda, ecc), eravamo un popolo di emigranti, eppure una parte non irrilevante del Paese vorrebbe respingere gli emigranti, non eravamo razzisti, fino a quando il nostro Paese non diventava un porto di approdo e gli “stranieri” si limitavano a qualche “folcloristico” ospite di colore, ecc.
Allora bisognerà riflettere su quanto la crisi ci ha gettato in faccia con una brutalità fino a qualche giorno fa inimmaginabile.

Serve quindi un piccolo decalogo delle cose da ricordare e da cui trarre insegnamento. Proviamo ad elencarne alcune, tra le tante su cui dovremo riflettere: un primo parziale memorandum, cui ne dovranno seguire altri.
Innanzitutto, credo, che la vicenda coronavirus ci insegna che chi si propone a guida del Paese non può affidare le proprie scelte, perlomeno per le grandi questioni d’interesse nazionale, secondo la stramba teoria o metodo dell’analisi costi/benefici. Mi pare appaia con evidenza che se quello fosse lo strumento, la sanità pubblica, e non solo, dovrebbe chiudere. Nessun rapporto costi/benefici sarà mai a favore della sanità pubblica.
Viviamo in questi giorni la più chiara dimostrazione della necessità e della giustezza di un sistema sanitario libero, pubblico e universale.

Il virus è democratico, può colpire tutti indiscriminatamente, ricchi e poveri, belli e brutti. È come affrontarlo che non è scontato sia parimenti democratico: in un sistema come quello italiano, tutti possono godere di assistenza gratuita a prescindere dalla propria condizione economica, in altri sistemi (la grande America ad es.), ti puoi curare solo se puoi permettertelo.

Allora che si finisca con questa “stramberia”, falsamente democratica, delle analisi costi/benefici. Chi governa deve assumersi la responsabilità di scegliere (sia essa la Tav come la Sanità, l’Istruzione, come i trasporti, la politica industriale, l’Ilva ecc.), perché tali scelte non solo danno il senso della propria visione del mondo, ma determinano nel concreto la vita collettiva. Affidarsi alle analisi costi/benefici risulta quindi un modo elegante per nascondere le proprie incapacità, per accattivarsi facili consensi, per lavarsene le mani.

La crisi fa emergere con forza il ruolo, assolutamente primario, dello Stato, come regolatore non dei rapporti sociali, ma di controllo e indirizzo del mercato (favorire o meno la sanità, o l’istruzione privata ad es. a discapito di quella pubblica). Allo stesso tempo si impone però una riflessione sulle implicazioni che derivano dalla “ingerenza” dello Stato nella convivenza democratica tra cittadini, tra questi e le istituzioni e tra le istituzioni nelle sue varie articolazioni: fino a che punto uno Stato può limitare, di fatto, le libertà individuali e collettive? Ed emerge inoltre, contestualmente quindi, con estrema chiarezza, l’assurdità dell’Autonomia differenziata tanto sbandierata prima della crisi.

Appare sempre più evidente inoltre come sia necessaria e vitale l’equa distribuzione fiscale, altro che appiattimento, l’importanza, da un lato, della lotta all’evasione ed elusione, e dall’altro della necessità di una migliore e più efficace progressività, e quindi della necessità “etica” di tassare i grandi patrimoni, senza che questa ipotesi venga facilmente e demenzialmente accantonata come “estremista e antagonista”, una sorta di vendetta contro chi “ce l’ha fatta”. La Patrimoniale, quindi, da riproporre con forza per quella che è: uno strumento, etico prima di tutto, di distribuzione della ricchezza a beneficio della collettività.

La tecnologia deve essere al servizio dell’uomo e non del profitto. In questi giorni si corre all’uso dello smart working, cioè della possibilità diffusa di lavorare senza necessariamente spostarsi (che tra l’altro consente riduzione di traffico con conseguente miglioramento della qualità dell’aria, riduzione di consumi superflui, favorisce il trasporto pubblico ecc). In tempi di “pace” allora la tecnologia può, deve, mettersi al servizio dell’uomo: si può produrre meglio, ma la ricchezza prodotta non deve tradursi in accumulazione, ma deve essere restituita alla collettività, che tale ricchezza produce, in termini di salario, in termini di occupazione e in termini di tempo restituito.

L’elenco, come si diceva, può proseguire. Mi fermo qui. Ma allora, come sinistra, dobbiamo porci, riproporci la domanda principale su noi stessi: quale è il nostro ruolo, la funzione, la ragion d’essere.
In questo scenario, per rimanere nel nostro misero orticello italiano, allora, capisco quello che mi divide dalla destra. Come mi appare chiara la distanza con il Pd (quello che finora è stato e quello che ancora pare rimanere): un soggetto ancorato ad una visione liberista con cui, necessariamente, dovrò confrontarmi, con cui dovrò, necessariamente, dovrò immaginare alleanze o coalizioni, ma mai riconoscermi o confluire.
Quello che non mi appare chiaro è la pervicacia nel perseguire la continua divisione a sinistra delle decine di forze, soggetti, associazioni di sinistra di cui Sinistra Italiana, Art1, Potere al Popolo, Possibile, Prc sono solo i più “visibili”.

Cosa ci divide, oggi, nel 21° secolo? Ci divide il contrasto ideologico se è preferibile la Rivoluzione in un solo Paese o la Rivoluzione permanente? Il dibattito su Marx o Proudhon? Sulla scelta socialdemocratica? Ci divide la sudditanza all’Urss e ai Paesi fratelli?
Mi pare, credo, che tutte le principali forze di sinistra nel Paese siano convintamente antiliberiste, siano tutti per una società di eguali, si proclamino tutte per un ambientalismo come strumento di cambiamento, tutte avversarie di una società al servizio del capitale, tutte antifasciste.
Insomma la cornice, e direi il contenuto ideale e ideologico, è comune.

Ci dividono (per rimanere in una analisi “nobile” delle motivazioni e tralasciando personalismi e convenienze di parte) le singole scelte politiche: ma queste giustificano il confronto, non la divisione, perché queste sono contingenti, se inserite nel quadro ideale descritto.
La fine della crisi ci porrà con forza, come sinistra, una riflessione seria su tutto questo: se la divisione è ancora accettabile e soprattutto se utile al Paese. Ci stiamo assumendo una responsabilità enorme e non da adesso.
Bisognerebbe avere il coraggio, da parte di tutte le forze in campo, di scegliere una volta per tutte e chiaramente, di sciogliersi e creare un unico grande, forte, aperto, plurale soggetto nuovo che possa rappresentare le esigenze diversamente senza sponde.

Sarebbe una operazione di grande coraggio e lungimiranza se i diversi soggetti (so di sognare) decidessero di tenere i loro congressi, basterebbe una mezza giornata, con un unico tema all’ordine del giorno, da votare in mezzora: scioglimento e adesione a nuovo soggetto. Lo potrebbero fare tutti nella stessa giornata, per ritrovarsi subito dopo (come a Livorno nel ’21 se qualcuno ha memoria) in una sala comune dove dare vita, assieme e con pari dignità, ad un nuovo soggetto, senza pretese, senza voler “pesare” più di altri, scegliendo una classe dirigente nuova, comune, fatta delle migliori menti disponibili, a prescindere dalla provenienza e dal peso.
Mi rendo conto di aver semplificato molto, che non è così semplice, che il tutto necessiterebbe di lavori preparatori ecc. Ma si potrebbe dare il senso della volontà, di aver compreso, o di aver cominciato a comprendere.
Quando tutto questo finirà, le domande inevase che esistevano prima della crisi non saranno scomparse. Se mai se ne aggiungeranno di nuove. E noi, la sinistra, staremo sempre lì a guardarci l’ombelico, o finalmente sapremo sederci a ragionare insieme su come dare una risposta ai bisogni della gente?

Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti.
Aderente Movimento Politico èViva