Dopo la crisi di governo del 2019, riguardo il Tav sembrava si fosse giunti ad un punto di arrivo. Ovvero: il Tav si fa. Un’opera che costerebbe all’Italia diversi miliardi di euro – come se non avessimo bisogno di investirli in nulla di più urgente, come che so, posti letto in ospedale – ma che si fa perché si fa, perché va fatta, e soprattutto perché ormai non si torna indietro.
Purtroppo, molte informazioni diffuse al riguardo e spacciate per indiscutibili non sono altro che colossali fake news. Un esempio: a difesa della necessità di proseguire con i lavori, si dice – o meglio, si sbraita – che qualora rinunciasse al Tav, l’Italia sarebbe costretta a pagare somme ingenti (c’è chi addirittura parla di uno o due miliardi) in penali all’Ue e/o agli affidatari dei lavori.
Eppure, questo è assolutamente falso. Innanzitutto perché non esiste nessun contratto con l’Unione europea – né tanto meno col governo francese – che prevede il costo di qualsivoglia penale in caso di ritiro dal progetto, ma non solo: la legge 191/2009, articolo 2, comma 232 prevede che «il contraente generale o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria, eventualmente sorta in relazione alle opere individuate con i decreti del presidente del Consiglio dei ministri di cui all’alinea, nonché a qualunque pretesa anche futura connessa all’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera». Quindi, lo ripetiamo: nessuna pretesa risarcitoria. Infine è opportuno specificare che l’Ue stanzia i fondi a fine lavori, e i lavori per il Tav devono ancora iniziare (attualmente, da quando è stato completato il cunicolo geognostico tre anni fa, il cantiere è fermo). Quindi, se lo Stato italiano rinunciasse al Tav, si limiterebbe a “perdere” dei soldi che ha già speso. Guadagnando tutti quelli che intende investirci. Magari, per dire, investendoli in infrastrutture di cui abbiamo davvero bisogno.
Tra i diversi documenti a sostegno dell’effettiva inutilità dell’opera, comunque, solo nel 2019 la commissione del Ministero presieduta da Marco Ponti (professore di Economia e pianificazione dei trasporti) ha pubblicato l’analisi costi-benefici – secondo la quale «il progetto presenta una redditività fortemente negativa» e che stima una perdita fino a 7 miliardi. A quanto pare, però, nemmeno questa è bastata a convincere i feroci sostenitori del progetto.
I NoTav sembrano essere gli unici a continuare a combattere quella che non è più una semplicemente una battaglia contro il Tav ma una vera e propria guerra contro tutte le grandi opere inutili in cui vengono stanziati fondi sottratti a istruzione, sanità, ambiente. Una resistenza difficile, spesso ostacolata; ma che diventa sempre più attuale in vista dell’emergenza che ritroviamo a fronteggiare oggi: forse, invece che per il trasporto, avremmo dovuto investire sulla sanità. Che è null’altro che ciò che la Valsusa invoca da ormai più di trent’anni.
Contemporaneamente alla sovraesposta manipolazione delle notizie da parte dei media è andata avanti negli ultimi anni una vera e propria denigrazione mediatica nei confronti del movimento NoTav: d’altronde è noto come non esista metodo più efficace, per reprimere un dissenso, che privare il suo portavoce della sua credibilità. E come più facilmente privare un popolo della sua credibilità, se non dipingendolo come un violento gruppo di pericolosi terroristi?
Già nel 2015 il Tribunale dei Popoli denunciava la grave violazione dei diritti compiutasi nei confronti dei valsusini: con – tra le altre cose – «l’avvenuta esclusione della comunità locale da ogni confronto sulla effettiva utilità dell’opera; […] la violazione del diritto di partecipare, di concorrere alle decisioni che riguardano il proprio habitat, la propria vita e la propria salute e la vita e la salute delle generazioni future; […] la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; […] violazioni di diritti costituzionalmente garantiti (in particolare in punto libertà di circolazione, di manifestazione, di espressione del pensiero e di libertà tout court); […] l’adozione di misure legislative aventi come obiettivo l’esclusione della partecipazione dei cittadini e delle comunità locali; la strategia di criminalizzazione della protesta con pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia, che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza.».
L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Meravigliosa, la nostra Costituzione. Ma ha ancora senso parlare di libertà di espressione nel clima di repressione giudiziaria, militarizzazione, falsificazione e denigrazione mediatica a cui è sottoposta la Valsusa?
Democrazia è partecipazione politica attiva del popolo. E quando un popolo rinuncia alla sua libertà di informazione e di espressione – per la sicurezza, di solito, o per il progresso – ecco, in quel momento la democrazia muore.