C’è chi è stato sequestrato dall’Isis mentre faceva informazione, chi ha documentato il dramma in Yemen aggirando i paletti imposti ai cronisti embedded, chi è stato una vita sulla frontline dei più sanguinosi conflitti del pianeta, schivando proiettili e analizzando fatti. Loro sono Amedeo Ricucci, Laura Silvia Battaglia e Gian Micalessin, raccontano la guerra per mestiere e oggi si trovano a coprire un disastro di portata epocale, quello del Covid-19.
Il gergo militaresco imperversa nella comunicazione mediatica: il fronte, gli eroi, la prima linea, la trincea, la retrovia sono la grammatica della pandemia. E chi meglio di loro, reporter specializzati in aree di crisi, può dirci come leggere il controverso paradigma bellico.
«È facile dire che il virus è un nemico da combattere. Tutto l’apparato lessicale che riconduciamo al conflitto rischia di semplificare di molto il racconto di quello che sta succedendo. Il problema è che questa non è una guerra ma un’emergenza sanitaria complessa», dice Amedeo Ricucci, inviato speciale del Tg1. «Utilizzare la scorciatoia della metafora bellica – precisa – può essere pericoloso perché non mostra quello che invece dovremmo vedere: dietro il bollettino quotidiano della Protezione Civile che ci dà il conto dei morti e dei caduti, ci sono storie e persone. Ogni storia è indicativa di un pezzo di realtà su cui sarebbe il caso di puntare i riflettori».
Si fatica a restituire quanto sta accadendo, il distanziamento sociale è un limite, il virus è un pericolo in agguato anche per i giornalisti, e sta imponendo un nuovo modo di informare. Così, appesi – momentaneamente – il giubbotto antiproiettile e l’elmetto al chiodo, armati di mascherina e guanti medicali, i reporter delle zone di frontiera narrano il morbo. C’è chi entra nei reparti Covid o sale a bordo di un’ambulanza, chi fa interviste via Skype dalla quarantena forzata o commenta filmati forniti direttamente dagli operatori sanitari.
«Ci stiamo attrezzando per lavorare a distanza – prosegue l’inviato Ricucci – e chi come me ha frequentato i teatri di guerra, quelli veri, ci è abituato. È successo ad esempio in Siria, quando dopo la metà del 2013 era impossibile entrare nel Paese perché c’era il rischio di essere sequestrati e ci siamo attivati lavorando dai confini».
Per Laura Silvia Battaglia, nomen omen, giornalista in aree di crisi, «la retorica della guerra è giustificabile quando a parlarne è un medico o un soccorritore. Questo è il motivo per cui è nata questa metafora». Quando un dottore si trova nella condizione di dover ammettere un paziente a discapito, suo malgrado, di un altro, perché anziano o con patologie pregresse, «è un tipo di azione che si fa in guerra», afferma. Al netto di questo aspetto, «la pandemia va chiamata pandemia, così come il terremoto è il terremoto».
Anche Battaglia registra un cambiamento radicale nel modo di fare informazione, «chi lavora sul campo vive di contatti fisici, ma in questa situazione, non soltanto per la nostra personale sicurezza ma soprattutto per i nostri familiari, bisogna riuscire a trovare anche un modo nuovo di comunicare. È una sfida che la crisi ci impone».
Gian Micalessin, una vita in prima linea, pensa invece che il Covid sia peggio di una guerra, «un disastro epocale che, oltre a seminare morte, cambierà il volto del nostro Paese». Boots on the ground, durante questa emergenza sanitaria, i suoi reportage dalla terapia intensiva di Cremona al fianco di medici e infermieri che si sacrificano per salvare i pazienti, sono devastanti. «Il numero di caduti in Italia per il Covid-19 è peggiore di quello di molti altri conflitti. Tutto questo segnerà per sempre i sopravvissuti», afferma. Lui, che copre le zone calde da 35 anni e ha girato il globo in lungo e in largo, adesso scende sotto casa e trova l’inferno. Camminando nel Bergamasco, a Nembro, paesino falcidiato dal virus, Micalessin ha pensato a Sarajevo, a Grozny o ad Aleppo.
«Quando le bombe, i razzi e i cecchini regalavano un po’ di tregua, la gente usciva per strada, qui non si vede nessuno, la morte e la precarietà dell’esistenza sono sensazioni incancellabili». Una minaccia invisibile e terrificante quella virale, nella quale il reporter si è già imbattuto tempo fa, quando «la paura m’è entrata dentro e non m’ha lasciato. È successo a Kikwit, epicentro del contagio di Ebola che nel 1995 colpì lo Zaire, l’attuale Congo. Bombe e proiettili si vedono oppure si sentono. Il virus no, è una paura intangibile».
Che ci piaccia o no la metafora della «guerra», di fatto uno scontro mondiale è in corso, e si sta giocando sul piano biologico, dove le forze armate dei globuli bianchi, preposte alla difesa della salute, ingaggiano una battaglia senza quartiere contro l’esercito del Covid-19.