Insegnare discipline storico-artistiche oggi non è semplice. Si è distanti dagli studenti e bisogna trovare le parole adatte al momento drammatico. Riscoprire opere lontane serve più che mai, per affrontare la quotidianità riscoprendo valori universali

Gli studenti, diceva al principio del Duecento il dotto cistercense Elinando di Froidmont, non stanno mai fermi. «Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici ad Orléans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo». Al netto della tirata moralistica, la rivoluzione universitaria medievale vede nella mobilità un imperativo categorico. Per formarsi bisogna spostarsi.

In questi giorni terribili possiamo riflettere sul fatto che proprio il medioevo abbia inventato tre istituzioni che fanno da midollo spinale del mondo moderno e civile – l’università, l’ospedale, il Comune. E che l’università sia ora costretta a negare per qualche tempo la sua natura dinamica, insegnando da ferma. Anche se non siamo contagiati o non abbiamo parenti o amici colpiti dal virus, stiamo comunque sperimentando una fortissima limitazione della libertà di movimento e di relazione; e come docenti, la difficoltà di svolgere il nostro mestiere nella chiusura simultanea di aule, biblioteche, archivi, musei, luoghi della cultura in genere. E non c’è torre d’avorio che possa farci sentire meno diminuiti da questa ondata di morti. Insegnare diventa difficile non solo perché non si è in aula, ma ancor più perché bisogna trovare le parole adatte al giorno e all’ora. La sospensione forzata potrà servire a farci riflettere – non solo noi universitari, ma tutta quella società che si reputi civile – su quanto spazi e istituzioni come quelle siano indispensabili alla nostra vita, e quanto la loro chiusura incida sul funzionamento di un Paese. E magari a indurre la politica a ragionare sulla necessità fisiologica di investire seriamente sulla ricerca e sull’istruzione. Ma anche al senso della nostra missione.

Da oltre un mese stiamo riflettendo, con responsabilità mista a smarrimento, su come possiamo svolgere il nostro ruolo di fronte a una simile emergenza. Non a caso ho adoperato la metafora eburnea per alludere all’isolamento dell’intellettuale: in questo momento sto tenendo un corso sugli avori medievali e più volte mi sono chiesto che senso abbia parlare di oggetti magnifici ma così lontani da noi quando le nostre vite stanno cambiando così profondamente. Ma vite, città, paesaggio e mondo sono impregnate di immagini anche remote. Per quanto ci possa sembrare bizzarro, noi siamo quel che siamo anche perché mille anni fa…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 3 aprile 

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