Sarà che le cose cambiano, cambia il mondo, capitano imprevisti e la vita non è nient’altro che una catena di accadimenti che non si erano preventivati eppure in queste settimane di pandemia, chiusi ma con i pori spalancati per abbeverarsi in un altro modo di quello che ci manca, ci stanno raccontando un Paese sostanzialmente diviso in due tra coloro che hanno preso consapevolezza di un cambiamento (che come tutti i cambiamenti nasconde nelle pieghe anche delle opportunità pur essendo di matrice negativa) e coloro che invece rimangono incagliati in attesa che tutto passi e che si torni come prima.
Lo si vede soprattutto nella politica (sono quelli che al solito hanno i megafoni più potenti per sputare idee, anche pessime idee) ma lo si nota tra gli amici, tra i famigliari, tra tutti quelli con cui riusciamo ad avere contatti nei diversi modi che ci sono concessi.
La pandemia, questa pandemia, ci costringe a fare i conti con un mondo che avevamo immaginato sempre liscio, che sarebbe potuto andare solo così come l’abbiamo sempre visto, come se la storia non ci avesse insegnato abbastanza che le condizioni in cui ci troviamo possono precipitare da un momento all’altro. La lezione è importante: quanto ci siamo dedicati durante la nostra vita a immaginarci immersi in un altro contesto che non fosse il nostro? Quante volte abbiamo potuto (e voluto) empatizzare con individui molto più spaventati di noi, molto più a rischio, molto più vacillanti? Ecco, ora lo siamo noi.
Se da una parte ci sono quelli che spingono a comportarsi come prima sperando che questo determini il ritorno alla normalità di prima (che loro chiamano semplicemente normalità senza avere il piglio di pensare che è naturale che le cose cambino) dall’altra parte ci sono quelli che stanno cambiando e si stanno reinventando per interpretare il momento senza farsene inghiottire e tra i due c’è da scommettersi che convenga mettersi dalla parte di questi ultimi.
Per questo anche la politica, come tutti coloro che hanno in mano le leve del cambiamento, dovrebbe concentrarsi un po’ meno su cosa potremo fare ma soprattutto sul come dovremo fare. Ci sarebbe da capire che il tema dei prossimi mesi, se non dei prossimi anni, sarà quello di un paradigma economico che sta già dimostrando di affondare (il petrolio crollato è un dio economico che si è sbriciolato nel giro di poche settimane) e che si riflette sulle vite di tutti. Questo è il punto: la guerra di chi dice “riapriamo tutto” e “torniamo alla normalità” è una fanfara vuota che non ha nulla da dire e non ha soluzioni da dare.
Evitare di incagliarsi sul “come prima” è il primo gesto responsabile per affrontare questo tempo. La nostalgia non è una buona cura, mai, per nessun tipo di crisi.
Buon mercoledì.