Lo sviluppo tecnologico permette di delegare alle macchine la parte più meccanica del lavoro, dice il sociologo Domenico De Masi. Lavorare meno ore al giorno e lavorare tutti, è prioritario. Ma anche redistribuire ricchezza, potere e sapere

Lavorare meno lavorare tutti, un’idea che torna a farsi strada nelle socialdemocrazie del Nord Europa. La giovane premier finlandese Sanna Marin ne aveva parlato in un convegno. Salita ai vertici del governo, intanto, si sta adoperando per difendere e rilanciare il welfare nel suo Paese e chissà che in futuro non tematizzi più concretamente la questione. In Italia di riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio ha parlato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico e il tema è stato evocato in un documento congressuale dal segretario generale Cgil Landini. Certo passare ai fatti non è così facile, ma auspichiamo che il dibattito possa finalmente decollare anche da noi, nonostante la feroce levata di scudi di conservatori e neoliberisti, dislocati anche nel centrosinistra.

Chi ha scritto molto sulla necessità di un giusto riequilibrio fra tempi di lavoro e di vita, sfruttando gli aspetti migliori dello sviluppo tecnologico, è il sociologo Domenico De Masi, già autore del monumentale Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, 2018), un volume di oltre 800 pagine che offre una ricca disamina delle diverse concezioni del lavoro e del «tempo liberato» nelle varie epoche, dall’otium letterario dei latini e prima ancora dei cittadini greci (in una società basata però sullo sfruttamento e sulla discriminazione degli schiavi e delle donne) per arrivare al lavoro concepito come condanna per il peccato originale nel medioevo cristiano e a mezzo di elevazione nell’ideologia protestante consustanziale alla nascita del capitalismo, come rilevava già Max Weber. Ma non solo. Interessantissimo è anche il quadro sinottico tratteggiato da De Masi che, fuori da un orizzonte eurocentrico, propone di approfondire il senso che il lavoro ha assunto nelle differenti concezioni orientali, per esempio nella visione confuciana o in quella taoista, attenta all’equilibrio uomo e natura, fuori dall’ossessione produttivistica di cui è affetto anche il capitalismo di Stato cinese. Una ossessione che domina anche l’attuale discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro sui giornali mainstream in Italia.

Professor De Masi, davvero ridurre l’orario di lavoro a parità di salario sarebbe una débâcle  comportando un crollo vertiginoso della produttività?
Non è così. Torno a segnalare un trend accertato dai fatti. Ecco qualche dato: nel 1891 gli italiani erano circa 40 milioni, allora si lavorava in media 6 ore al giorno per 6 giorni alla settimana; in un anno 70 miliardi di ore lavorate. Cento anni dopo, nel 1991, gli italiani arrivano a 57 milioni. Entrate in vigore le prime leggi di riduzione dell’orario, si parla di 60 miliardi di ore. Eravamo 17 milioni in più e lavoravamo 10 miliardi di ore in meno, non so se è chiaro. Eppure producevamo 13 volte di più rispetto a 100 anni prima. Passano trent’anni e arriviamo a noi oggi. È aumentato il progresso tecnologico ma anche la globalizzazione. Siamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore. E abbiamo prodotto 600 miliardi di dollari in più. Come vede, in 130 anni è un trend inarrestabile. Di fatto noi stiamo imparando a produrre più beni e più servizi lavorando meno ore.

A fronte di questo però in Italia ci sono immigrati che lavorano 12 ore al giorno per 2 euro all’ora. Ancora pochi giorni fa un’operazione anti caporalato a Reggio Calabria ha riportato alla luce questa quotidianità inaccettabile.
Abbiamo due anomalie fortissime che contrastano con il trend generale. La prima riguarda questi lavoratori quasi sempre immigrati, senza nessuna garanzia, per i quali non c’è ancora nessuna tutela, nessun contratto che stabilisca un minimo salariale; persone che a costi infimi sono costrette a lavorare per molte più ore. E l’Italia in media ha già un monte ore di lavoro molto più alto della media dei Paesi Ocse.

In concreto?
Un italiano in media lavora 1.723 ore all’anno, un tedesco in media lavora 1.356 ore, c’è una bella differenza. Questo è anche uno dei motivi per cui i tedeschi hanno il 79 per cento di occupazione e noi invece abbiamo il 58 per cento. Ma abbiamo un’altra anomalia rispetto alla Germania e ad altri Paesi, che viene messa poco in luce. Manager e quadri del pubblico e del privato lavorano più ore rispetto a quanto ne comporti il contratto, ma questo vale per i giornalisti, per i consulenti ecc. I dirigenti sono 260mila e facendo in media 2 ore di overtime al giorno, 5 giorni alla settimana, sono 114 milioni di ore, praticamente tolgono lavoro a 66 milioni di disoccupati. E non si è mai capito perché un manager tedesco esca alle 17, mentre un manager italiano, se è donna torna a casa perché deve accudire i figli, se è maschio resta una, due, tre ore in più e se ne vanta mentre è un killer seriale di lavoro. In Germania lavorano il 20 per cento in meno ma producono il 20 per cento in più. Questo è uno scandalo di cui non si parla mai, perché la produttività non dipende dai lavoratori ma dipende dai datori di lavoro e dai manager. Qui non si parla del fatto che se in Italia c’è il 20 per cento in meno di produttività è per colpa della incapacità dei dirigenti.

In questi giorni si discute molto di pensioni. In Francia gli scioperi dei lavoratori hanno costretto Macron a ritirare in parte il suo progetto di riforma delle pensioni, con cui intendeva spostare l’età pensionabile da 62 a 64 anni. I sindacati  in Italia hanno lanciato la proposta della pensione a 62 anni, cosa ne pensa?
In generale, fatta eccezione per i lavori usuranti, io sono dell’avviso che si dovrebbe ridurre l’orario di lavoro ma non gli anni di lavoro. Se sono 40 miliardi di ore quelle che lavoriamo oggi vanno portate a 30, ma queste 30 vanno distribuite per più anni, per un fatto semplicissimo: un tempo la pensione era a 55 anni per le donne e 60 anni per i maschi. Ma all’epoca si moriva a 50 anni. Era  una truffa perché l’Inps si prendeva i contributi tutta la vita e poi doveva erogare la pensione ma il pensionato era morto. Oggi la vita media degli uomini è di 80 anni, 86 per le donne, e si va in pensione a 65 anni. Questo cosa comporta? Ci sono 20 anni di inerzia. Io trovo che il lavoro vada reso bello, perché sia sempre migliore, ma quando è reso bello lo si svolga il più possibile. Grazie alla tecnologia, la parte negativa del lavoro, quella noiosa, ripetitiva, pericolosa potrebbe essere delegata sempre più alle macchine. Il lavoro ora può essere più creativo. Oggi un 65enne è come era un 40enne un tempo, è uno con una vita attiva, l’amore, lo sport; lo vogliamo mandare a portare il cane ai giardinetti?

Politica e sindacati dovrebbero contribuire ad elaborare una visione nuova della società e ripensare il lavoro perché sia sempre più una realizzazione sociale e umana?
È compito anche degli intellettuali, che purtroppo oggi hanno rinunciato a  ripensare la società. Lo avevano fatto gli intellettuali della rivoluzione francese. Lo aveva fatto Marx e con lui quei pensatori che si sono messi a studiare aprendo orizzonti di liberazione dall’oppressione. Nel contesto attuale, in cui pochi ricchi sono sempre più ricchi e aumentano le disuguaglianze, compito prioritario è pensare a come creare opportunità per tutti e tutele, è prioritario studiare i modi per redistribuire lavoro, ricchezza, potere e sapere.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Domenico De Masi è stata pubblicata su Left del 17 gennaio 2020

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