Nelle ultime settimane sembra che il leghista Luca Zaia, presidente della Regione Veneto dal 2010, sia diventato il miglior politico d’Italia. Elogiato in tutti i modi possibili da buona parte della stampa italiana – pure da chi fino a poco tempo fa lo definiva un razzista – e anche da quella internazionale, Luca Zaia nel giro di un mese è passato da quello che “i cinesi mangiano i topi vivi” all’essere l’eroe dell’emergenza sanitaria. Il modello veneto funziona, e funzionava anche prima della pandemia, ma è stato costruito in quasi 30 anni di collaborazione affiatata da parte di tutti gli esperti del settore sanitario. Zaia ora si prende i meriti, ma non dimentichiamoci che se fosse per lui questo modello in Veneto oggi non esisterebbe.
Ne abbiamo parlato con Claudio Beltramello, medico specialista in Igiene, attualmente consulente di management sanitario e professore a contratto dell’Università di Padova. In passato ha avuto esperienze all’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra e in Africa come coordinatore dei progetti del Cuamm – Medici con l’Africa. Dal 2010 è consigliere comunale del Partito democratico a Castelfranco Veneto.
Zaia nelle ultime settimane è stato lodato in tutti i modi possibili, non solo dalla stampa nazionale ma anche da quella internazionale. Sono meritati questi elogi?
Sicuramente il merito principale di Zaia è stato quello di saper cambiare rapidamente le proprie idee, adattandosi di volta in volta alle circostanze e alle soluzioni suggerite dagli esperti. Una sua qualità già confermata da tempo – quella di saper dire tutto e il contrario di tutto – che questa volta però si è rivelata molto utile.
Un opportunismo politico che paradossalmente è stato quasi provvidenziale per la comunità.
Sicuramente Zaia non è uno innamorato delle proprie idee: le cambia anche da un giorno all’altro. È una cosa molto discutibile in politica, forse anche riprovevole, ma durante questa emergenza era necessario essere dinamici e lui lo è stato. Una cosa molto importante che viene detta sulle epidemie è che bisogna essere svelti; lui è stato svelto a cambiare idea.
Ad esempio, quale idea?
Beh su Andrea Crisanti (direttore del dipartimento di Medicina molecolare Unipd e direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’Azienda Ospedaliera di Padova, ndr), che inizialmente era un “avversario”, ha saputo non fossilizzarsi, e questa è stata la fortuna più grande del Veneto. All’inizio, prima ancora che arrivasse l’epidemia, Crisanti voleva fare i tamponi ai rientrati dalla Cina e gli è stato impedito dal direttore generale della sanità veneta (e presidente dell’Aifa, ndr), Domenico Mantoan. In quell’occasione si è beccato diverse lavate di capo, poi Zaia è riuscito a trasformarlo nel migliore dei suoi alleati.
In che senso è stata una fortuna?
Nel senso che in primis Crisanti e Roberto Rigoli come microbiologi, poi gli infettivologi, pneumologi e anestesisti hanno saputo fare la differenza grazie alle loro competenze e intuizioni. Il Veneto, attraverso lo studio fatto a Vo’ dal professor Crisanti, ha capito prima delle altre regioni che i soggetti positivi asintomatici giocavano un ruolo chiave in questa epidemia, e quindi ha saputo agire di conseguenza. Questa è una chiave di lettura importantissima per capire il successo del Veneto durante questa crisi.
Il modello veneto sembra però un modello consolidato, a prescindere dall’emergenza.
Il Veneto ha un sistema sanitario molto integrato tra ospedale e territorio, territorio inteso come distretti, dipartimenti di prevenzione e medici di medicina generale. Questa integrazione è strutturata anche con il sociale. Si pensi al caso di un anziano malato e solo: dove sta la linea di confine tra il sanitario e il sociale? Qui da noi le unità amministrative vengono chiamate ancora Ulss (Unità locali socio-sanitarie). Storicamente in Veneto tutti gli ospedali sono all’interno dell’Ulss, tranne i due ospedali universitari di Padova e Verona. Vi sono cioè solo due ospedali-azienda, e questo spiega alcune differenze con la sanità lombarda.
La differenza principale saprebbe spiegarmela in poche parole?
Sin dalla riforma del Servizio sanitario nazionale del 1992 il Veneto ha deciso di fare in modo diverso. Quella riforma prevedeva l’aziendalizzazione e una grande riorganizzazione del sistema sanitario, e il Veneto ha deciso di tenere gli ospedali dentro l’Ulss per garantire l’integrazione col territorio (con molte funzioni), e di avere pochissimi ospedali privati convenzionati, molto presenti invece in Lombardia. In quasi 30 anni si è creato un modello di collaborazione e di comunicazione tra tutte le componenti del sistema che va ben aldilà dei possibili protocolli o percorsi che si scrivono sulla carta, senza dubbio fondamentali ma non sufficienti per una reale integrazione.
Anche perché 30 anni non possono essere rimpiazzati in due mesi.
Certo, questa epidemia ha semplicemente scoperto ciò che già c’era. Difficilmente in poche settimane è possibile inventarsi un sistema complessivo che prima non c’era, o scalzare dei modelli consolidati in un determinato modo da vent’anni o più. La crisi dunque ha fatto emergere in Veneto un modello vincente che esisteva già; chi non ce l’aveva sicuramente non poteva metterlo in piedi in due mesi o addirittura nelle prime tre settimane della fase acuta.
Non si tratta quindi di maggiori risorse ma di maggiore integrazione?
I medici di medicina generale in Veneto non hanno avuto dei mezzi in più di quelli della Lombardia o di altre regioni. Ora si racconta che loro avessero già tutto, ma non avevano niente in più degli altri colleghi in Italia. Se sono riusciti a tenere a casa più pazienti, non scaricandoli tutti in ospedale, è dovuto a questo modello di integrazione, in cui la persona resta al centro. L’ospedale non scarica il paziente quando non è più compito suo curarlo; allo stesso modo i medici di famiglia e i servizi territoriali non scaricano i pazienti all’ospedale come se non avessero più alcuna responsabilità. Tra medici di famiglia e servizi del distretto è consolidata una collaborazione molto stretta; questo, evidentemente, è un modello molto più collaborativo e integrato rispetto alle Asl territoriali “contrapposte” agli ospedali-azienda.
Zaia è il presidente della regione da 10 anni. Ha meriti nella costruzione di questo modello?Semmai ha colpe. Negli ultimi 10 anni, pian pianino e in modo silenzioso, lui e il direttore della sanità Mantoan hanno cercato di smantellare in parte questo modello. Ora si vantano perché il Veneto ha questo modello integrato, il territorio forte, ecc., ma la verità è che, soprattutto negli ultimi 5 anni, sono stati tagliati molti posti letto al sistema ospedaliero pubblico (mentre sono aumentati invece quelli del privato convenzionato) e la parte territoriale è stata negletta in modo decisivo: un sacco di personale andato in pensione e mai sostituito, riduzione dei primariati delle funzioni territoriali, depauperamento generale costante e silenzioso dei dipartimenti di prevenzione. Poi il modello aggregativo avanzato dei medici di medicina generale, cioè la medicina di gruppo integrata, a partire dall’ultimo piano sociosanitario regionale è stata accantonato. Nel piano si prevede addirittura di far gestire i pazienti anziani cronici complessi a équipes del privato convenzionato.
C’è stato dunque un tentativo di privatizzazione del sistema sanitario?
Certo, anche se Zaia lo nega. Più volte negli anni lui e il dottor Mantoan hanno esaltato il modello lombardo, sostenuto che il privato convenzionato non andasse demonizzato, che non fosse opportuno opporsi a questa tendenza, che in Lombardia le cose funzionassero alla grande, e via dicendo. Oggi, giustamente, si vantano dei risultati del sistema pubblico integrato ma non dicono che erano i primi a volerlo cambiare. Grazie ai professionisti sanitari e ai sindacati che hanno difeso strenuamente un modello che funzionava, e grazie anche all’opposizione in consiglio regionale di Pd e 5 Stelle, ciò non è avvenuto. Se fosse stato per la Lega, però, questo modello in Veneto non ci sarebbe più da un pezzo.