Se la battaglia per i diritti e le tutele sul lavoro era essenziale prima della pandemia, in questi ultimi mesi si è fatta pure una questione di vita o di morte. A mezzo secolo dalla legge che "ha portato la Costituzione nelle fabbriche", abbiamo chiesto alla Cgil come rilanciare la lotta per garantire a tutti un’occupazione dignitosa e sicura

Cinquanta anni fa la Costituzione “veniva portata nelle fabbriche”. Con l’auspicio di raggiungere tale obiettivo nel 1952 Giuseppe Di Vittorio aveva proposto l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori, un testo che rendesse effettive le garanzie relative al lavoro espresse nella Carta fondamentale e sino ad allora rimaste lettera morta. Quella norma arrivò nel 1970. Era il 20 maggio quando la legge 300, intitolata “Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, veniva pubblicata in Gazzetta. Una legge assolutamente avanzata per l’epoca, con la quale si sottraeva agli imprenditori il controllo assoluto su ciò che accadeva nei luoghi di lavoro, permettendo l’ingresso ai sindacati, impedendo i licenziamenti “per rappresaglia” e disponendo che le assemblee sindacali fossero retribuite e organizzate all’interno di fabbriche e uffici. Con la legge 300 inoltre venivano fissate garanzie per gli infortuni, paletti a difesa della libertà di opinione e tutele rispetto al diritto allo sciopero.

Cosa resta oggi di quello Statuto? Per prima cosa, non si può non ricordare il suo pesante depotenziamento con la riforma dell’articolo 18 sui licenziamenti illegittimi, prima con la legge Fornero e poi col Jobs act.

Dopodiché, per farci un idea del livello di interesse che il mondo produttivo ha per i lavoratori e i loro diritti primari, possiamo sfogliare il Rapporto annuale dell’Ispettorato del lavoro pubblicato ad aprile. Ad esempio, al capitolo sulla tutela della salute e della sicurezza, oggi come non mai delicato, scopriamo che nel 2019 l’86% delle aziende ispezionate sono risultate irregolari (15.859 su 19.218). Un tasso identico a quello del 2018 e di 4 punti superiore rispetto al 2017. Certo, percentuali così alte di irregolarità possono indicare anche una buona capacità dell’Ispettorato di indirizzare le proprie, poche, forze verso le realtà più “a rischio”. Ma, se sommiamo questi dati a quelli relativi alle morti sul lavoro, il quadro assume tinte fosche.

A gennaio 2020, prima dell’emergenza coronavirus, hanno perso la vita 52 persone in incidenti sul lavoro, otto in più rispetto alle 44 registrate nel primo mese del 2019 (+18,2%). Poi la pandemia ha scompaginato le statistiche. Secondo i dati diramati il 24 aprile dall’Inail, le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto nei primi tre mesi dell’anno sono state 130.905 (-16,9% rispetto allo stesso periodo del 2019), 166 delle quali con esito mortale (-21,7%) – un trend che è ovvia conseguenza del fermo produttivo – ma al contempo nel comparto di sanità ed assistenza sociale si è registrata un’impennata di denunce: +33% su base trimestrale e +102% su base annuale (marzo 2020 vs marzo 2019). I casi denunciati sono raddoppiati, passando dai 1.788 del marzo 2019 ai 3.613 del marzo 2020 (tre denunce su quattro riguardano il contagio da Covid-19).

Il combinato disposto dei cambiamenti degli ultimi decenni nel mondo del lavoro con l’accelerazione impressa dalla pandemia obbliga senza dubbio a una riforma radicale delle tutele dei lavoratori. Ne abbiamo parlato con alcuni sindacalisti Cgil, procedendo per punti.

Sicurezza. Con l’avvento della Fase 2, milioni di cittadini sono tornati a lavorare. In che condizioni l’hanno fatto? Come tutelarli? E come ripensare la sicurezza sul lavoro nel futuro più prossimo, anche alla luce delle nuove esigenze sanitarie?
Maurizio Brotini, segretario Cgil Toscana: «Chi è tornato al lavoro dopo il lockdown ha trovato situazioni che dipendono dalla forza e presenza delle organizzazioni sindacali: migliori nelle grandi e medie realtà dove il sindacato c’è, preoccupanti dove esso non è presente. L’accordo del 24 aprile (tra governo e parti sociali, ndr) che ha portato all’aggiornamento del Protocollo per la sicurezza sul lavoro ha istituito provvedimenti contro le aziende che non rispettano le prescrizioni, è un aspetto positivo, come lo è il riconoscimento della funzione dei sindacati. Ma c’è ancora molto da fare. È indispensabile consolidare il ruolo dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) dotandoli di un monte ore per la formazione, così come bisogna estendere con leggi e contratti la presenza dei Rappresentanti alla sicurezza di sito produttivo e territoriali. Occorre infine aumentare il personale pubblico destinato ad ispezioni e controlli: Ausl, Ispettorato del lavoro, Agenzie ambientali regionali».

Smart working. L’emergenza sanitaria ha implicato una repentina mutazione dell’organizzazione lavorativa, favorendo in alcuni ambiti il ricorso al lavoro agile. Per questa modalità di lavoro non esiste ancora una disciplina sufficientemente rigorosa. Le imprese manterranno queste novità “eccezionali” anche dopo il lockdown? Come tutelare i lavoratori che ne sono coinvolti?
Mirko Lami, segretario Cgil Toscana: «Curiosamente fino a poco tempo fa molte imprese consideravano lo smart working come uno strumento per vagabondare da casa. Spesso veniva richiesto da donne per poter accudire i figli piccoli e vi era il pregiudizio che chi ne godesse rendesse meno all’azienda. Ora il mondo produttivo ha scoperto che questo metodo può funzionare e garantire un risparmio economico. Per questo il sindacato deve interrogarsi sui suoi vantaggi e rischi».

Nicola Atalmi, segretario Slc Cgil Treviso: «I rischi sono molti. Tante madri lavoratrici in lavoro agile, non scelto ma “forzato”, con le scuole chiuse fino a settembre, si sono trovate a svolgere un triplo lavoro in condizioni impossibili. Se ne parla ancora troppo poco. Inoltre il nostro timore è che, avendo il capitale verificato che con lo smart working si possono tenere alti controllo e produttività del personale contenendo i costi, si apra una nuova fase di precarizzazione ed esternalizzazione di alcuni ruoli».

Brotini: «Non c’è dubbio, molte aziende manterranno il lavoro a distanza. Col quale possono ottenere: riduzione dei costi aziendali (spazi, riscaldamento, elettricità, mensa, connessioni), aumento delle ore lavorate e ancora più difficile separazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, controllo costante, atomizzazione ulteriore con ancora più difficile sindacalizzazione. Si rende dunque necessaria l’istituzione del diritto alla disconnessione, ossia di una fascia oraria giornaliera inviolabile di riposo, e poi una revisione delle maggiorazioni orarie come lavoro notturno, festivo, a turni, straordinari, un recupero delle spese scaricate dall’azienda sul lavoratore da ottenere per via contrattuale, una riduzione dell’orario di lavoro che oltre a diminuire le ore settimanali lavorate riduca anche le giornate di lavoro, il tutto a parità di salario».

Licenziamenti. La crisi economica che abbiamo iniziato ad affrontare espone i lavoratori alle conseguenze di un probabile mutamento della struttura produttiva del Paese. Il blocco dei licenziamenti per sessanta giorni previsto dal governo col decreto del 17 marzo, e prolungato di ulteriori tre mesi col decreto Rilancio, è una misura importante, ma comunque insufficiente a causa dei suoi limiti temporali. Come rimediare?
Lami: «Dovremmo subito ragionare su cosa accadrà ai lavoratori impegnati in attività aperte al pubblico nelle quali sarà indispensabile contingentare gli ingressi. Penso ai camerieri, baristi, parrucchieri. La politica e anche il sindacato dovranno interrogarsi su questi cambiamenti. Tanti lavori spariranno e vi è un altissimo rischio che in molti tra coloro che sino a ieri vivevano di stipendi medi si ritrovino a scendere la scala sociale fino a piombare nella povertà».

Brotini: «Per evitarlo dobbiamo innanzitutto ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed ampliarlo alle realtà con almeno 5 dipendenti, invece delle 15 previste dallo Statuto del 1970. Si tratta di una proposta che è parte della Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil che abbiamo lanciato nel 2016, per far approvare un vero e proprio nuovo Statuto dei lavoratori».

Saperi. La crisi potrebbe essere un’occasione per tutelare e promuovere lavoro ad alto valore aggiunto, per il quale però è indispensabile la formazione continua del personale. Senza considerare che la conoscenza è uno dei primi fattori che attiva l’ascensore sociale, anche per chi è già inserito nel mondo del lavoro.
Brotini: «Prima di tutto occorre rilanciare scuola ed università pubbliche, assieme alla ricerca di base. E poi lungo l’arco della vita devono essere previsti periodi sabbatici di astensione dal lavoro per la formazione: oggi la si fa troppo spesso solo dopo che si è perso il lavoro».

Atalmi: «Va riportato al centro il diritto soggettivo ad una formazione permanente anche svincolata dalle mere esigenze produttive. Il lavoratore in un mercato del lavoro sempre più duro deve essere messo in condizione di aggiornare ma anche accrescere le proprie competenze, pure in ambiti che non siano quelli strettamente necessari all’impiego attuale ma magari in vista di quello futuro, per dargli più forza sul mercato del lavoro».

Lavoratori autonomi. Nello Statuto del 1970 vi è un forte dualismo tra dipendenti e autonomi che ha perso attrito con la realtà. Come sappiamo oggi i confini tra le due forme di impiego sono più sfumati e le tipologie di lavoro non subordinato sono sempre più pervasive e con poche tutele. Come proteggere i lavoratori che le svolgono, spesso poco sindacalizzati?
Brotini: «Vanno estesi ai lavoratori autonomi ma economicamente subordinati le forme di tutela previste per tutti i lavoratori dipendenti: formazione, malattia, maternità, ferie. È obiettivo della Cgil cambiare il proprio perimetro di rappresentanza: non più solo lavoratori dipendenti e pensionati ma anche “veri” lavoratori autonomi con redditi che però ne assimilano la posizione a quella di coloro che tribolano col proprio lavoro».

Atalmi: «Questo è il tema più importante del nuovo Statuto che propone la Cgil e passa attraverso un concetto semplice ma rivoluzionario. Di fronte al fatto che il mondo del lavoro si è profondamente modificato in questi anni, e il capitale ha spinto a fondo sulla precarizzazione cercando di aggirare continuamente le normative per trovare sempre nuove formule di flessibilità e ricattabilità, noi invece di tentare lo sforzo di Sisifo di ri-normare le nuove fattispecie contrattuali che vengono create per fornire diritti e garanzie anche per queste, abbiamo scelto la strada del ribaltamento concettuale rimettendo al centro i diritti inalienabili del lavoratore. Ovvero noi ricostruiamo il sistema dei diritti del lavoro attorno alla persona che lavora, che ha dei diritti che prescindono dal tipo di contratto che gli viene applicato perché sono diritti universali ed inalienabili.

Ciò disarma l’incessante lavorio del capitale per trovare sempre diverse forme contrattuali di sfruttamento della prestazione lavorativa. Una sfida eccezionale ma non più rinviabile che può ricomporre la classe frantumata e recuperare alla tutela collettiva, sindacale ma anche politica, un pezzo di lavoro autonomo costruendo assieme ai diritti anche una nuova idea di welfare inclusivo ed equo».

[divider]Parola ai lavoratori[/divider]

CINQUANT’ANNI DI LAVORO PER LO STATUTO

Giorgio, operaio per 43 anni in un’acciaieria toscana, Marco, tecnico pure lui in una acciaieria ma in trentino, e Talem, giovane studente e ciclofattorino. A 50 anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, abbiamo chiesto loro un’opinione sul significato di questa conquista, sugli eventuali limiti della normativa e soprattutto su quali sono gli interventi più urgenti in tema di diritti negati.

Lo Statuto – inizia Talem – «è come una barriera contro l’avanzata delle nuove forme di sfruttamento del nostro secolo, ma deve essere aggiornato». Se con la legge 300 vi furono riforme migliorative, «come col rinnovo del contratto dei metalmeccanici che nel 1973 introdusse le 150 ore, poi estese agli altri contratti nazionali, un riconoscimento formale del diritto alla propria formazione, in tempi più recenti siamo invece arrivati a veder approvati atti che – osserva Giorgio – non esito a definire incostituzionali, come la riforma dell’articolo 18 e il Jobs act». 

E per quanto riguarda la tutela della attività sindacale, altro baluardo dello Statuto? «Io faccio il ciclofattorino su piattaforma – racconta Talem – nel nostro settore i diritti sindacali non esistono. Non possiamo eleggere i nostri rappresentanti, dunque far valere le nostre richieste. Così si determina una sostanziale assenza di democrazia. Inoltre, esprimere rivendicazioni collettive in alcuni casi può farti perdere il posto. Mentre in altri subiamo pure la beffa di colleghi che si organizzano su indicazione dell’azienda, per difendere lo status quo».

In queste condizioni, anche una possibilità che fino a poco tempo fa era considerata un diritto normalmente acquisito, le ferie, per alcuni «almeno per ora, sono un solamente un sogno», dice ancora Talem. «Prendersi un periodo di riposo per chi fa il rider – aggiunge – comporta conseguenze negative sul nostro futuro: veniamo classificati tramite un algoritmo, questo dà ad ognuno di noi un punteggio col quale siamo suddivisi in varie fasce, più si è in alto e più sarà semplice ottenere dei turni. Non lavorare per una settimana, ossia andare in ferie, comporta un abbassamento del punteggio e quindi uno scorrimento nelle fasce più basse».

Una realtà distopica e sconcertante. Ma se si è arrivati sin qui, aggiunge Marco, non è solo per colpa di un arretramento dello Stato: «Nel secondo dopoguerra molti imprenditori hanno creato imperi con l’intuito ed il genio, rischiando in prima persona; oggi purtroppo la classe imprenditoriale ha pochissime idee innovative». È anche per questo che la formazione dei lavoratori è diventata un optional. «Oggi  le aziende non investono più sulle persone, cercando di farle crescere umanamente e dal punto di vista delle competenze, per formare un gruppo di professionisti. Si preferisce assoldare lavoratori “usa e getta”, sfruttati fino al limite di rottura».

Anche secondo Talem la formazione sarebbe fondamentale: «In un contesto produttivo in continua evoluzione favorirebbe la produttività e permetterebbe ai lavoratori di avere una specie di “scudo” contro i licenziamenti perché un datore di lavoro tenderà a tenere un lavoratore formato da lui a spese sue; oltretutto in caso di licenziamento sarebbe più facile per il lavoratore trovare una nuova opportunità, grazie alle conoscenze acquisite, che lo farebbero restare “al passo coi tempi”».

Invece così non è. E chi lavora fatica ad essere sereno persino quando si ritira dall’attività. «Il pronunciamento del Comitato europeo dei diritti sociali di febbraio, passato un po’ in sordina, è una vergogna – dice Giorgio – L’Italia è stata giustamente richiamata perché “manca un approccio globale e coordinato per lottare contro la povertà e l’esclusione sociale”».

Il punto, chiosa Talem, è che «non può essere definito lavoro tutto ciò che ti viene pagato, specie quando non sono rispettate le tutele di base (ferie, malattia, straordinari, infortuni, impiego stabile, paga dignitosa). Il tasso di disoccupazione può anche essere bassissimo, ma ciò non per forza corrisponde a un reale benessere della società».

 

*** Articolo pubblicato il 30 aprile 2020 ed aggiornato il 20 maggio 2020, alle ore 12 ***

L’inchiesta di Leonardo Filippi è stata pubblicata su Left del Primo maggio 2020

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