Intorno al software che, sulla carta, dovrebbe aiutarci nella lotta al Covid si è scatenata una disputa tra tecnoentusiasti e complottisti. Al netto di numerosi eccessi e sfondoni, sono state finalmente messe a fuoco alcune questioni importanti, relative al diritto alla privacy e agli effetti indesiderati della sorveglianza da parte delle multinazionali

Il dibattito che si è sviluppato su Immuni, la app per tracciare i contagi da Covid-19, si presta a una riflessione sul rapporto tra i cittadini, lo Stato e le aziende, sia in tempi normali che in un contesto emergenziale.

Sulla app Immuni (presente dal 1° giugno negli store digitali, ndr) si è detto tutto e il contrario di tutto. I sostenitori la presentano come un proverbiale deus ex machina, l’arma per sconfiggere la diffusione del virus ma soprattutto il lockdown generale. I contrari gridano al totalitarismo, al Grande fratello (quello del libro, per carità, non il reality), alla dittatura delle multinazionali dell’Internet. La battaglia tra le due fazioni viene combattuta prevalentemente sul web, a suon di post e tweet.

Per esempio, in un tripudio di superbia e mancanza di conoscenza della materia informatica, un noto medico ha accostato su Twitter coloro che si oppongono alla app agli anti-vax, con tanto di soprannome accattivante, anti-trax, immediatamente adottato dai suoi seguaci. O ancora, su Facebook è diventato virale un post che taccia chi è contrario all’app di incoerenza perché “tanto poi acconsentono alla geolocalizzazione per fare il test su quale verdura sei”. Una frase simile, che poteva essere al massimo un jingle, uno sketch superficialotto e niente più, è stata presa sul serio e condivisa dai tanti che evidentemente non hanno ben chiara la differenza tra tecnologia Gps e Bluetooth, ma sono comunque convinti di saperne degli altri.

Gli oppositori oltranzisti della app non sono riusciti a coniare nomignoli accattivanti, ma si sono profusi in un mare di post che propevano le analisi di sedicenti super tecnici/livello hacker enfant prodige oppure di complottisti puri, che arrivavano a chiamare in causa la massoneria o spiegazioni di fanta-diritto e strafalcioni sui diritti umani e del cittadino.

Nel mezzo di questa, passatemi il termine, caciara si sono ritrovati i cauti, quelli che volevano capire esattamente cosa avrebbe fatto la app, e gli ignari, i non “so/non rispondo”.

Sarebbe semplicistico ridurre questo scontro a presunte tendenze italiche alla polemica, alla scissione, o alla mancanza di fiducia nelle istituzioni (attendo con ansia uno studio che riveli se davvero siamo così polemici e sospettosi per cultura o se ormai questa è solo una scusa che usiamo per litigare con estranei su Internet senza sensi di colpa).

Il dibattito Immuni Sì/No è, in primis, la manifestazione più recente di una serie di posizioni filosofiche e sociali riguardanti il ruolo e gli effetti delle nuove tecnologie nella società. Può apparire un dibattito faceto, ma offre la preziosissima occasione per avviare una riflessione più approfondita a livello di opinione pubblica, ed assumere una prospettiva più ampia.

Torniamo indietro di qualche mese.

Une delle prime reazioni all’epidemia è stata lo sgomento. La nostra convinzione di essere ormai una specie diversa, l’homo technologicus, si è scontrata con la realtà, mostrando tutta la nostra hubris: tutte le scoperte e i passi in avanti fatti dalla medicina non bastano, siamo ancora in alcuni casi in balia della natura. La prima reazione di molti, specialmente delle varie Silicon valleys e società informatiche sparse per il mondo, è stata quella di ricondurre questa anomalia sotto l’ala della scienza e della tecnologia. Ci deve essere qualcosa, qualche scoperta o invenzione, in grado di arginare il virus. La tecnologia ci salverà.

Questo è senza dubbio in parte vero. La scienza medica ed il progresso tecnologico ci permettono una qualità della vita e delle cure mai raggiunte prima. Ma questo non vuol dire che qualsiasi intervento tecnologico sia adatto o auspicabile. L’idea di base è che il progresso scientifico e tecnologico sia inevitabile, sia il fine ultimo dell’avanzare dell’umanità. Anzi, che sia proprio l’essenza stessa dell’umanità. La visione che ne deriva è che il progresso non sia più un mezzo per rendere migliore la vita degli uomini, no, il progresso è il fine stesso dell’uomo. Seguendo questa visione, a volte detta tecno-determinismo, l’umanità diventa il mezzo attraverso cui ottenere il progresso. Ne deriva che saremmo destinati a perpetrare un susseguirsi di balzi in avanti, con nuove scoperte e tecnologie che risolveranno uno ad uno tutti i problemi del mondo, costi quel che costi per la società, per gli individui.

Questo tipo di visione, assimilata inconsciamente da tutti noi negli ultimi duecento anni, generazione dopo generazione, ha due risvolti. Da un lato stimola l’umanità a osare sempre di più, a superare limiti considerati prima invalicabili. È vitale e costruttiva. Dall’altro rafforza l’idea che ci sia una soluzione tecnologica semplice, geniale, piccola e veloce a qualsiasi problema. Ed è qui che le cose si fanno complicate e si apre spesso la via a fallimenti catastrofici o a vere e proprie truffe.

Basti pensare al caso di Elizabeth Holmes, studentessa della prestigiosa università statunitense di Stanford. Dopo il primo anno di università Holmes, stanca di vedere i professori tarpare le ali ai suoi progetti, molla gli studi e fonda una start-up di nome Theranos. Obiettivo di Theranos è democraticizzare la sanità americana, creando un macchinario grande poco più di un trolley con cui effettuare analisi del sangue per decine di patologie usando solo poche gocce di sangue e ottenendo i risultati in poche ore. Un sogno meraviglioso! In pochi mesi Theranos raccoglie finanziamenti nell’ordine delle decine, poi addirittura centinaia, di milioni. Naturalmente, però, il macchinario immaginato dalla Holmes non è realizzabile. Il sogno resta tale. Come previsto dai suoi ex professori, la sua visione era semplicemente distaccata dalla realtà, irrealizzabile. Theranos è finita così, con una accusa di truffa ed una causa interminabile. Casi come quello di Theranos ci ricordano che una visione esageratamente tecno-determinista ci può ingannare e rende inaffidabile lo sviluppo tecnologico. Che le soluzioni semplici e veloci a volte non esistono.

Cosa ancora più importante, qualsiasi intervento tecnologico porta con sé un costo a livello personale e sociale. Per questo vanno in ogni caso valutati accuratamente prima di essere messi in pratica. Non ha senso, infatti, usare una tecnologia solo perché è stata sviluppata (o è possibile da sviluppare), se poi i vantaggi che porta sono incerti, e il costo in termini di diritti fondamentali dei cittadini è elevato. Bisogna fermarsi, respirare, prendere le distanze dalle promesse del tecno-determinismo e chiedersi se davvero sia possibile ottenere il risultato promesso, e quanto saremmo disposti, come società, a pagarlo.

Nel caso di Immuni il costo più evidente è quello della nostra privacy. E qui è necessario soffermarsi un attimo sul tema. Immuni, almeno in base a quanto reso noto fino ad ora, adotta una serie di accorgimenti tecnici (low energy Bluetooth, protocollo decentralizzato, pseudonimizzazione con variazione randomica dell’Id, pubblicazione del codice sorgente) che fanno avvicinare l’app quanto più possibile ad un livello elevato di protezione dei dati personali degli individui che decideranno di scaricarla ed usarla. Questo tipo di misure rendono Immuni non tanto una app di tracciamento, quanto una app per segnalare l’avvenuta esposizione ad un individuo contagiato. Da questo punto di vista lo sforzo degli sviluppatori è encomiabile (anche se è bene ricordare che Immuni non è perfetta e molti problemi permangono, primo fra tutti l’affidabilità del Bluetooth per determinare il contatto tra due smartphone).

La “protezione dei dati personali”, però, non è la stessa cosa della “privacy”. I due concetti sono in parte sovrapposti, hanno una intersezione, come i diagrammi che abbiamo imparato a disegnare a scuola. Proteggere i dati personali aiuta a proteggere la privacy, permette agli individui di gestire quali informazioni vengono condivise con gli altri, le proiezioni verso l’esterno della propria identità. La privacy è anche altro, però. È la possibilità di non essere soggetto costantemente ad una analisi inquisitoria della propria personalità, gusti, preferenze, conoscenze, idee. La possibilità di limitare l’accesso al proprio corpo, ai propri pensieri, alla propria sfera privata, ai propri spostamenti. Proteggere la privacy significa proteggere la possibilità di sviluppare la propria persona senza doversi limitare e controllare per paura di conseguenze indesiderate. È per questo che la sorveglianza, sia essa da parte dello Stato o delle società di marketing, affligge la nostra privacy, il nostro sviluppo personale.

La sorveglianza è più ovvia nel caso di una app di tracciamento ma permane, anche se in forma meno intensa, anche nel caso di app che segnalano l’esposizione al virus come Immuni. Gli effetti di questo monitoraggio dipendono anche molto da come viene interiorizzato dai cittadini. Anche se i nostri dati sono pseudonimizzati e corredati di adeguate tutele, la app può comunque avere un effetto sui cittadini, che potrebbero cambiare il loro comportamento sentendosi osservati. Questo fenomeno, indicato col termine chilling effect, è ben conosciuto dagli esperti. E se vogliamo pensar male, le autorità in parte ci sperano anche nel chilling effect. Le app di tracciamento/esposizione possono infatti avere l’effetto collaterale di farci pensare due volte prima di uscire. Così, il governo coglie due piccioni con una fava.

Ora, non tutti gli interventi che limitano la privacy sono inaccettabili. Quando è giustificata da una buona ragione (e vengono create determinate protezioni e valvole di sicurezza), la limitazione della privacy diventa un sacrificio calcolato, un prezzo da pagare per un certo obiettivo.

È questa idea di sacrificio, questo tipo di rischio che incombe sulla propria sfera privata, che ha spinto gli anti-Immuni ad allarmarsi. D’altronde non possiamo pretendere che il prezzo da pagare per utilizzare l’app vada bene a tutti. Specialmente per le minoranze, sistemicamente discriminate, e per le fasce deboli della società, la sorveglianza ha di solito un costo altissimo in termini di diritti fondamentali. Il “rapporto qualità-prezzo” stabilito dallo Stato per l’adozione della app non è stato accettato da tutti, specialmente a fronte delle incertezze sui reali benefici. Non è chiaro, infatti, se la app avrà davvero un apporto positivo alla lotta al Covid-19. Non c’è modo di saperlo in anticipo. E sì, forse tra chi è contrario alla app ci sono anche utenti di Facebook che han dato via i propri dati per poter fare il test “Quale verdura sei?”.

Ma una domanda nasce spontanea: e quindi? Vista da un’altra prospettiva, è una cosa positiva che si sia creata in questi utenti una maggiore consapevolezza del valore della propria privacy e dei propri dati personali. Storicamente il diritto alla privacy si sviluppa come protezione dalle interferenze delle autorità pubbliche. È solo recentemente, negli ultimi venti anni, che si è andata creando una maggiore consapevolezza sugli effetti indesiderati della sorveglianza da parte delle multinazionali. È normale che alcuni cittadini siano guardinghi e restii ad usare una app simile, gestita in parte dallo Stato e in parte dalle società. Eh già, in parte da l’uno e in parte da l’altro.

Anche su questo andrebbe fatta una riflessione. Lo Stato è sempre più esautorato dalla sfera tecnologica. È una tendenza globale quella per cui le autorità pubbliche non hanno né le competenze né le capacità per sviluppare e gestire nuove tecnologie, e ricorrono ai privati, quasi sempre multinazionali con i profitti annuali pari a quelli di una nazione medio-piccola. Queste tecnologie, però, hanno effetti molto diretti sui cittadini e sui loro diritti. Siamo davvero sicuri di volere dare questo tipo di potere a società private? Dov’è la legittimazione democratica? E dove ci porterà questa integrazione tra Stato e multinazionali? L’offerta di Google ed Apple di costruire un Api per facilitare l’integrazione di app di tracciamento/esposizione ha un carattere politico. C’è parecchio al riguardo nella letteratura cyberpunk e di science fiction, forse possiamo prendere spunto da lì e mettere qualche paletto, prima che sia troppo tardi.

A queste considerazioni se ne aggiunge un’altra. Immuni, come qualsiasi altra tecnologia, non esiste nel vuoto, ma verrà inserita in un complesso scenario sociale, politico, ed economico. Quando Immuni comincerà ad essere in uso si creerà un sistema sociotecnico. Vale a dire che l’interazione tra la app, i cittadini, e le autorità creerà una situazione nuova e ulteriore rispetto a quella creata dalla mera esistenza dell’app. Mentre molti effetti di questa interazione saranno banali e prevedibili, altri potrebbero essere imprevedibili o indesiderati.

La non obbligatorietà della app, per esempio, potrebbe declinarsi in maniera molto diversa nella realtà. Cosa succederà in quelle comunità medio-piccole dove la pressione sociale e i possibili abusi delle autorità hanno una maggiore capacità di danneggiare i singoli cittadini? Basteranno gli strumenti contro l’abuso di potere a proteggere i cittadini dal sindaco, dall’esponente delle forze dell’ordine, dal gestore di supermercato che, magari credendo di essere nel giusto, si facessero sceriffi e imponessero l’uso della app a qualche cittadino?

Il governo, del resto, sembra consapevole di questi problemi e dei vari elementi in gioco nel rapporto tra tecnologia, individuo e società. L’implementazione di Immuni è regolata dall’articolo 6 del Decreto Legge 30 aprile 2020, n. 28. Nell’articolo si fa esplicito riferimento alla necessità di proteggere i dati personali. Emerge dall’articolo la consapevolezza della necessità che l’intervento tecnologico sia democratico e proporzionale, e che vengano messe in atto adeguate misure di salvaguardia della privacy degli individui. L’articolo include anche delle norme sulla non-obbligatorietà e sulla necessità di creare meccanismi adeguati di difesa contro possibili abusi perpetrati ai danni dei cittadini da qualsiasi ente pubblico o privato.

Anche in questo caso, sulla carta le buone intenzioni ci sono tutte. È lodevole, è un bene, ed è rassicurante vedere come il governo abbia interpellato non solo le società di informatica, ma anche l’Autorità garante per la privacy. Tutto ciò, però, non toglie il fatto che c’è sempre il rischio che le buone intenzioni espresse sulla carta si traducano poi in rischi per i cittadini, specie in situazioni particolari come questa, con la costante pressione generata dalla minaccia della pandemia. Se poi, a seguito dell’imminente voto parlamentare per la conversione del Decreto Legge, l’art. 6 dovesse venire emendato in negativo, i rischi potrebbero aumentare in maniera significativa.

In questo senso è importante prendere una posizione chiara: rendere Immuni obbligatoria è una mossa pericolosa per i diritti fondamentali dei cittadini, anche se ci troviamo in una situazione d’emergenza.

Questo non è il momento per cercare di far contenti tutti, di non sbilanciarsi. Durante una udienza di fronte alla Commissione Giustizia avvenuta lo scorso 19 maggio, prima del voto parlamentare, per esempio, sono state fatte dichiarazioni ambigue circa l’opportunità o meno di rendere la app obbligatoria. In maniera sorprendente, alcuni degli esperti interpellati hanno infatti affermato che nonostante l’app sia una grave interferenza con i diritti fondamentali dei cittadini, il fatto che non sia obbligatoria rappresenterebbe comunque un problema alla luce della lotta al Covid. Dopo tutto il lockdown è una interferenza anche peggiore, è stato detto.

Tre dei quattro esperti, durante l’udienza, hanno mantenuto un perfetto equilibrio tra il dire ed il non dire, non sbilanciandosi mai chiaramente a favore della non-obbligatorietà. Tutto ciò evidentemente ignorando la posizione del Garante della privacy, oltre venti anni di dottrina e giurisprudenza in materia di privacy. Una presa di posizione più netta in favore dei diritti fondamentali dei cittadini sarebbe stata auspicabile, specialmente di fronte alla Commissione Giustizia.

L’ideale, quando ci si trova davanti a tecnologie capaci di interferire profondamente con i diritti dei cittadini, sarebbe fermarsi e analizzare dettagliatamente tutti i possibili risvolti. Senza fretta, ma anche senza tergiversare.
Sfortunatamente il tempo è un lusso che non ci possiamo permettere quando siamo di fronte ad una pandemia. Questo rischia di farci sottovalutare i problemi connessi con l’uso della app di tracciamento/esposizione, ma la protezione dei diritti fondamentali deve rimanere il centro focale di qualsiasi intervento, sia esso tecnologico o legislativo. Se una nuova tecnologia interferisce con i diritti fondamentali non sono questi ultimi a dover essere cambiati. È la tecnologia a doversi adattare.

Anche per questo il dibattito tra pro e anti-Immuni è importante. Non escludo che sia proprio a seguito del dibattito che gli sviluppatori abbiano optato, per esempio, per un protocollo decentralizzato invece che centralizzato, come era stato paventato all’inizio. Potrà aver assunto a volte toni grotteschi, ma il dibattito è una manifestazione importante della nostra democrazia in un momento di profonda crisi. Ha aperto la strada ad una discussione più consapevole su sorveglianza, privacy, ruolo delle società private, coinvolgendo l’opinione pubblica su un problema attuale e concreto. Forse ci aiuterà anche a sviluppare gli anticorpi necessari a difenderci alle mutazioni dannose del tecno-determinismo, dalle logiche estreme di mercato.

In altre parole, il dibattito “Immuni Sì o Immuni No” è salutare per la nostra democrazia.