Nei primi giorni della Fase 2, chi si aggirava per le città avrà visto un fenomeno particolare: in quelle piazze e in quelle strade in cui eravamo soliti incontrare turisti, code di visitatori e passanti frettolosi si sono riversati bambini, donne con neonati e ragazzetti che corrono felici dietro a un pallone o sulle biciclette. Come se quei luoghi fossero diventati parchi - alcuni ancora chiusi - o enormi braccia pronte ad accogliere chi in questi lunghissimi mesi sembrava sparito, scomparso alla vista e dalle bocche di coloro che rincorrevano le notizie, la conta dei morti, le curve in salita e in discesa del contagio. Bambini, adolescenti e giovani sono sgattaiolati fuori appena si è potuto, come a gridare la loro presenza e a richiedere quell’attenzione che il nostro governo non ha voluto prestare loro.
In questa Fase 2 tutto ha riaperto, tranne la scuola. Il motivo è di ordine sanitario: le scuole sono potenziali luoghi di contagio, ad altissimo rischio, soprattutto in Italia dove la media di età dei docenti è assai alta e le classi sono molto affollate, a causa della scarsa metratura e dei numeri degli allievi.
Dal 5 marzo neonati, bambini e ragazzi hanno dovuto interrompere tutto: dai processi di conoscenza, alle relazioni sociali e amicali che popolavano le aule. Gli insegnanti - specie delle superiori - hanno subito attivato la fatidica Dad - didattica a distanza - ma seguendo tempi e modalità che hanno allontanato sempre più, via via che i giorni e i mesi passavano, quell’ideale di uguaglianza a cui la scuola è votata.
La didattica digitale funziona per davvero soltanto in quelle famiglie che possono permettersi una buona connessione, più computer a persona, metri quadrati che consentono un certo livello di privacy e in quelle scuole con un corpo docente giovane o comunque disposto a cimentarsi con le nuove tecnologie. Molto è stato demandato alla buona volontà di docenti e dirigenti scolastici. Se è possibile poi parlare di apprendimento online per gli adolescenti e forse per i ragazzini delle medie, come si può pretendere di insegnare a leggere e scrivere in questa modalità ad un bambino in prima elementare?
È parecchio diverso stare al computer e concentrarsi per un giovane di quindici anni e per un bambino di 6-7 anni. Quest’ultimo ha bisogno di essere seguito molto di più di persona, così come ha bisogno maggiormente dell’interazione con i compagni e di quella fisicità che gli garantisca la reale presa di coscienza degli apprendimenti. E che dire di quei piccoli che andavano all’asilo? Come è possibile intrattenerli con l’uso dello schermo? Ci sono state delle maestre che comunque ci hanno provato.
Nel nostro Paese è regnato un silenzio assordante su tutta una serie di questioni che riguardano il mondo dell’infanzia, dell’adolescenza e della scuola. Basti pensare che ad Alitalia è stato dato più del doppio di finanziamenti che a scuola e università. Gli obiettivi economici hanno fatto scendere scuola e giovani in secondo piano - come se non fossero una delle risorse principali per il nostro Paese. L’assenza di soluzioni variegate, che rispondessero alle diverse realtà scolastiche, è la conseguenza di un’assenza di pensiero a monte.
Per esempio non ci si è mai preoccupati di comunicare l’emergenza pandemica e le misure di controllo e distanziamento a giovani e bambini. Questi ultimi hanno visto attuare i vari decreti senza che una voce si rivolgesse loro e motivasse le decisioni prese. Nessuno si è mai interrogato su che cosa volesse dire annullare l’agognato viaggio di istruzione, la recita di fine anno, la festa per l’ultimo giorno di scuola, o interrompere l’amore iniziato tra i banchi. Gli insegnanti, specie delle superiori, che hanno mantenuto con loro uno stretto rapporto nonostante la distanza, hanno potuto registrare tristezza, ansie o anche una troppo pacata tranquillità d’animo, una sorta di rassegnata apatia, a cui forse ha contribuito anche questo fatto di non sentirsi considerati, contemplati nell’agenda politica - a parte gli exploit del tutto a sproposito della ministra Azzolina. In molti Paesi del mondo (Francia, Germania, Danimarca, Finlandia - per fare alcuni esempi) non si è mai cessato, durante tutto il lockdown, di parlare ai e dei giovani perché essi rappresentano la speranza di una società, quella risorsa di energia vitale senza la quale un popolo muore. E se si parla di giovani si parla anche di scuola.
È giunto il momento quindi di metterci a ragionare sulle esigenze del mondo scolastico e di quello infantile, giovanile, adolescenziale e provare a immaginare una ripartenza delle scuole per i mesi che verranno (in questi giorni si profila una riapertura soltanto per scuole medie ed elementari; per le superiori ancora si parla di lezioni online e di entrate scaglionate, ma non ci sono indicazioni precise). È evidente a tutti che una scuola a distanza può essere solo emergenziale - ne hanno sofferto anche gli stessi docenti, costretti a fare lezione spesso di fronte a telecamere spente o con connessioni deboli e ballerine che facevano saltare la spiegazione o l’interrogazione, per citare solo un paio di difficoltà incontrate. È altrettanto lampante che la scuola italiana ha bisogno di cambiamenti sostanziali, altrimenti a settembre ci ritroveremo da capo: con classi pollaio, un corpo docente tra i più anziani d’Europa, edifici fatiscenti e assenza totale di tablet, pc e banda larga.
Il momento durissimo - lo hanno detto in molti - può divenire occasione di riscatto, ripensamento, nuovo inizio, soprattutto per la scuola e la ricerca. La pandemia ha evidenziato le falle e i danni che istruzione e sanità hanno accumulato in anni di politiche liberiste fondate su tagli e logiche del profitto - di qui l’accorpamento di più istituti scolastici, i tagli di ore e di insegnanti, l’aumento degli alunni per classe.
Per un verso la soluzione è semplice: basterebbe fare tutto il contrario di quello che è stato fatto fino ad ora. Sogniamo una “Fase 3” in cui si cambi passo. Di qui la centralità di istruzione e di sanità pubbliche, con una scuola disseminata nelle periferie, nei piccoli centri, raggiungibile dai cittadini, recuperando spazi al chiuso e all’aperto, selezionando docenti giovani, preparati e motivati, formando classi di 12-15 alunni. E tutto questo indipendentemente dal virus. C’è bisogno di ripensare ai giovani con fantasia, affetto, speranza. I giovani hanno ascoltato tutti i giorni il bollettino delle 18 della Protezione civile, sarebbe l’ora che ascoltassimo loro ed elaborassimo risposte.
[su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"][su_button url="https://left.it/left-n-23-5-giugno-2020/" background="#a39f9f" size="7"]SOMMARIO[/su_button]
[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]Nei primi giorni della Fase 2, chi si aggirava per le città avrà visto un fenomeno particolare: in quelle piazze e in quelle strade in cui eravamo soliti incontrare turisti, code di visitatori e passanti frettolosi si sono riversati bambini, donne con neonati e ragazzetti che corrono felici dietro a un pallone o sulle biciclette. Come se quei luoghi fossero diventati parchi – alcuni ancora chiusi – o enormi braccia pronte ad accogliere chi in questi lunghissimi mesi sembrava sparito, scomparso alla vista e dalle bocche di coloro che rincorrevano le notizie, la conta dei morti, le curve in salita e in discesa del contagio. Bambini, adolescenti e giovani sono sgattaiolati fuori appena si è potuto, come a gridare la loro presenza e a richiedere quell’attenzione che il nostro governo non ha voluto prestare loro.
In questa Fase 2 tutto ha riaperto, tranne la scuola. Il motivo è di ordine sanitario: le scuole sono potenziali luoghi di contagio, ad altissimo rischio, soprattutto in Italia dove la media di età dei docenti è assai alta e le classi sono molto affollate, a causa della scarsa metratura e dei numeri degli allievi.
Dal 5 marzo neonati, bambini e ragazzi hanno dovuto interrompere tutto: dai processi di conoscenza, alle relazioni sociali e amicali che popolavano le aule. Gli insegnanti – specie delle superiori – hanno subito attivato la fatidica Dad – didattica a distanza – ma seguendo tempi e modalità che hanno allontanato sempre più, via via che i giorni e i mesi passavano, quell’ideale di uguaglianza a cui la scuola è votata.
La didattica digitale funziona per davvero soltanto in quelle famiglie che possono permettersi una buona connessione, più computer a persona, metri quadrati che consentono un certo livello di privacy e in quelle scuole con un corpo docente giovane o comunque disposto a cimentarsi con le nuove tecnologie. Molto è stato demandato alla buona volontà di docenti e dirigenti scolastici. Se è possibile poi parlare di apprendimento online per gli adolescenti e forse per i ragazzini delle medie, come si può pretendere di insegnare a leggere e scrivere in questa modalità ad un bambino in prima elementare?
È parecchio diverso stare al computer e concentrarsi per un giovane di quindici anni e per un bambino di 6-7 anni. Quest’ultimo ha bisogno di essere seguito molto di più di persona, così come ha bisogno maggiormente dell’interazione con i compagni e di quella fisicità che gli garantisca la reale presa di coscienza degli apprendimenti. E che dire di quei piccoli che andavano all’asilo? Come è possibile intrattenerli con l’uso dello schermo? Ci sono state delle maestre che comunque ci hanno provato.
Nel nostro Paese è regnato un silenzio assordante su tutta una serie di questioni che riguardano il mondo dell’infanzia, dell’adolescenza e della scuola. Basti pensare che ad Alitalia è stato dato più del doppio di finanziamenti che a scuola e università. Gli obiettivi economici hanno fatto scendere scuola e giovani in secondo piano – come se non fossero una delle risorse principali per il nostro Paese. L’assenza di soluzioni variegate, che rispondessero alle diverse realtà scolastiche, è la conseguenza di un’assenza di pensiero a monte.
Per esempio non ci si è mai preoccupati di comunicare l’emergenza pandemica e le misure di controllo e distanziamento a giovani e bambini. Questi ultimi hanno visto attuare i vari decreti senza che una voce si rivolgesse loro e motivasse le decisioni prese. Nessuno si è mai interrogato su che cosa volesse dire annullare l’agognato viaggio di istruzione, la recita di fine anno, la festa per l’ultimo giorno di scuola, o interrompere l’amore iniziato tra i banchi. Gli insegnanti, specie delle superiori, che hanno mantenuto con loro uno stretto rapporto nonostante la distanza, hanno potuto registrare tristezza, ansie o anche una troppo pacata tranquillità d’animo, una sorta di rassegnata apatia, a cui forse ha contribuito anche questo fatto di non sentirsi considerati, contemplati nell’agenda politica – a parte gli exploit del tutto a sproposito della ministra Azzolina. In molti Paesi del mondo (Francia, Germania, Danimarca, Finlandia – per fare alcuni esempi) non si è mai cessato, durante tutto il lockdown, di parlare ai e dei giovani perché essi rappresentano la speranza di una società, quella risorsa di energia vitale senza la quale un popolo muore. E se si parla di giovani si parla anche di scuola.
È giunto il momento quindi di metterci a ragionare sulle esigenze del mondo scolastico e di quello infantile, giovanile, adolescenziale e provare a immaginare una ripartenza delle scuole per i mesi che verranno (in questi giorni si profila una riapertura soltanto per scuole medie ed elementari; per le superiori ancora si parla di lezioni online e di entrate scaglionate, ma non ci sono indicazioni precise). È evidente a tutti che una scuola a distanza può essere solo emergenziale – ne hanno sofferto anche gli stessi docenti, costretti a fare lezione spesso di fronte a telecamere spente o con connessioni deboli e ballerine che facevano saltare la spiegazione o l’interrogazione, per citare solo un paio di difficoltà incontrate. È altrettanto lampante che la scuola italiana ha bisogno di cambiamenti sostanziali, altrimenti a settembre ci ritroveremo da capo: con classi pollaio, un corpo docente tra i più anziani d’Europa, edifici fatiscenti e assenza totale di tablet, pc e banda larga.
Il momento durissimo – lo hanno detto in molti – può divenire occasione di riscatto, ripensamento, nuovo inizio, soprattutto per la scuola e la ricerca. La pandemia ha evidenziato le falle e i danni che istruzione e sanità hanno accumulato in anni di politiche liberiste fondate su tagli e logiche del profitto – di qui l’accorpamento di più istituti scolastici, i tagli di ore e di insegnanti, l’aumento degli alunni per classe.
Per un verso la soluzione è semplice: basterebbe fare tutto il contrario di quello che è stato fatto fino ad ora. Sogniamo una “Fase 3” in cui si cambi passo. Di qui la centralità di istruzione e di sanità pubbliche, con una scuola disseminata nelle periferie, nei piccoli centri, raggiungibile dai cittadini, recuperando spazi al chiuso e all’aperto, selezionando docenti giovani, preparati e motivati, formando classi di 12-15 alunni. E tutto questo indipendentemente dal virus. C’è bisogno di ripensare ai giovani con fantasia, affetto, speranza. I giovani hanno ascoltato tutti i giorni il bollettino delle 18 della Protezione civile, sarebbe l’ora che ascoltassimo loro ed elaborassimo risposte.
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