Per 8 lunghissimi minuti e 46 secondi l’agente Dereck Chauvin è stato con un ginocchio sul collo di George Floyd, 46enne afroamericano fermato per strada perché sospettato di aver tentato di spendere una banconota falsa.
E lui è morto così, immobilizzato e soffocato, senza che avesse opposto resistenza. La totale anaffettività del poliziotto, completamente sordo alle richieste di aiuto, è uno degli aspetti sconvolgenti di questo agghiacciante assassinio, testimoniato da un video che dobbiamo al coraggio e alla coscienza civile di una ragazza di 17 anni. Floyd aveva perso il lavoro durante la pandemia. Era stato una promessa dello sport e aveva un talento come rapper. La compagna, i suoi fratelli, il figlio più grande ed anche la sua bambina, Gianna, hanno avuto parole bellissime per lui, cercando di spezzare la catena della violenza, chiedendo giustizia, non vendetta. Questo spaccato di realtà umana è rimasta nell’ombra nelle cronache che abbiamo letto in questi giorni. Negli Stati Uniti quel che è accaduto a George Floyd era accaduto a Maurice Gordon ucciso dalle forze dell’ordine il 23 maggio nel New Jersery, a Eric Garner, ucciso per soffocamento nel 2014 a New York durante un tentativo di arresto, e ad innumerevoli altri afroamericani e latinos.
La stessa sorte è toccata in Francia ad Adama Traoré, 24enne nero, morto per “placcaggio ventrale” il 19 luglio 2016 e più di recente a Mohamed Gabsi. Ed è accaduto e accade nei Territori occupati, dove l’esercito israeliano usa le stesse tecniche brutali nei confronti dei palestinesi.
Ed è successo qui da noi, in Italia, dove un ragazzino, Federico Aldrovandi, ha perso la vita in quello stesso modo dopo essere stato fermato dalla polizia all’uscita da una discoteca. L’elenco, drammaticamente, potrebbe essere molto più lungo. Oltre a restituire voce a chi è stata tolta, oltre a continuare a tenere alta l’attenzione perché venga fatta giustizia, bisogna interrogarsi sul perché “manovre” contro persone inoffensive, come quella, micidiale, che ha portato alla morte di Floyd e di molti altri, siano ancora considerate legittime in Paesi che si definiscono democratici. Rifiutare la violenza è una priorità, da qualunque parte venga. Non basta dire, come ha affermato qualcuno, che è una questione di scarsa formazione, di imperizia da parte delle forze dell’ordine. Dobbiamo chiedere ed esigere un controllo sociale sulle forze di pubblica sicurezza, dobbiamo chiedere e pretendere che siano addestrate a pratiche di non violenza. Dopo la mattanza di Genova 2001 è qualcosa che ci riguarda molto da vicino. Su questo torniamo a riflettere in questo numero grazie all’intervento di Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova, che oltre ad essere un valente collega, fu anche testimone e vittima come manifestante.
C’è un filo, ci pare di intravedere, che lega quel che accade negli Usa - dove la polizia e i suprematisti bianchi hanno ucciso almeno 12 manifestanti solo negli ultimi giorni - con quel che avviene nelle banlieue francesi dove la polizia picchia duro sui neri e sui più poveri, e a Hong Kong dove è sempre più violenta la repressione ordita da Pechino contro chi pacificamente chiede libertà e democrazia. A legare queste realtà diversissime è un filo spinato di autoritarismo e di negazione dei diritti umani. Da questo punto di vista Cina e Stati Uniti ci appaiono come due giganti speculari e dai piedi di argilla. Anche per questo molto spazio dedichiamo su questo numero di Left sia alla lotta per la democrazia ad Hong Kong, con un reportage di Francesco Radicioni, sia a quel che sta accadendo negli Usa dove da molti giorni ormai va avanti una protesta incendiaria contro il razzismo di Stato.
Ma da Oltreoceano avanza anche una rivolta non violenta, intergenerazionale e interculturale, contro ogni forma di discriminazione scandita dallo slogan «Black Lives Matter». Il movimento nato nel 2014 negli Usa sta diventando un’onda internazionale di consapevolezza, di presa di coscienza e di profondo rifiuto della violenza, visibile e invisibile. Violenza che, in uno Stato fondato sul genocidio degli indiani e sullo schiavismo, si è tradotta in una quotidiana criminalizzazione del comportamento dei neri e delle minoranze per impedirne l’emancipazione. Un fenomeno tanto più evidente oggi che alla guida del Paese c’è un presidente espressione di una minoranza bianca suprematista, razzista, bigotta, armata fino ai denti, disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi.
Ma i riots che incendiano le strade nordamericane non rappresentano tutta la verità. Un immenso fiume di persone ha manifestato con responsabilità, con calma, con vibrante compostezza. Sono attivisti di Black Lives Matters, come dicevamo, sono i giovani di Bernie Sanders, sono gli ex Occupy, sono le donne della Women march che all’indomani della elezione di Trump inondarono le strade di Washington. Chissà che da quella parte dell’America dove ora si inizia a parlare di riforma della polizia (mentre il sindaco di New York annuncia di voler diminuire i fondi alle forze di sicurezza per dirottarli verso servizi sociali e per la comunità) non possa nascere qualcosa di nuovo e contagioso anche per noi.
[su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"][su_button url="https://left.it/left-n-24-12-giugno-2020/" background="#a39f9f" size="7"]SOMMARIO[/su_button]
[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]Per 8 lunghissimi minuti e 46 secondi l’agente Dereck Chauvin è stato con un ginocchio sul collo di George Floyd, 46enne afroamericano fermato per strada perché sospettato di aver tentato di spendere una banconota falsa.
E lui è morto così, immobilizzato e soffocato, senza che avesse opposto resistenza. La totale anaffettività del poliziotto, completamente sordo alle richieste di aiuto, è uno degli aspetti sconvolgenti di questo agghiacciante assassinio, testimoniato da un video che dobbiamo al coraggio e alla coscienza civile di una ragazza di 17 anni. Floyd aveva perso il lavoro durante la pandemia. Era stato una promessa dello sport e aveva un talento come rapper. La compagna, i suoi fratelli, il figlio più grande ed anche la sua bambina, Gianna, hanno avuto parole bellissime per lui, cercando di spezzare la catena della violenza, chiedendo giustizia, non vendetta. Questo spaccato di realtà umana è rimasta nell’ombra nelle cronache che abbiamo letto in questi giorni. Negli Stati Uniti quel che è accaduto a George Floyd era accaduto a Maurice Gordon ucciso dalle forze dell’ordine il 23 maggio nel New Jersery, a Eric Garner, ucciso per soffocamento nel 2014 a New York durante un tentativo di arresto, e ad innumerevoli altri afroamericani e latinos.
La stessa sorte è toccata in Francia ad Adama Traoré, 24enne nero, morto per “placcaggio ventrale” il 19 luglio 2016 e più di recente a Mohamed Gabsi. Ed è accaduto e accade nei Territori occupati, dove l’esercito israeliano usa le stesse tecniche brutali nei confronti dei palestinesi.
Ed è successo qui da noi, in Italia, dove un ragazzino, Federico Aldrovandi, ha perso la vita in quello stesso modo dopo essere stato fermato dalla polizia all’uscita da una discoteca. L’elenco, drammaticamente, potrebbe essere molto più lungo. Oltre a restituire voce a chi è stata tolta, oltre a continuare a tenere alta l’attenzione perché venga fatta giustizia, bisogna interrogarsi sul perché “manovre” contro persone inoffensive, come quella, micidiale, che ha portato alla morte di Floyd e di molti altri, siano ancora considerate legittime in Paesi che si definiscono democratici. Rifiutare la violenza è una priorità, da qualunque parte venga. Non basta dire, come ha affermato qualcuno, che è una questione di scarsa formazione, di imperizia da parte delle forze dell’ordine. Dobbiamo chiedere ed esigere un controllo sociale sulle forze di pubblica sicurezza, dobbiamo chiedere e pretendere che siano addestrate a pratiche di non violenza. Dopo la mattanza di Genova 2001 è qualcosa che ci riguarda molto da vicino. Su questo torniamo a riflettere in questo numero grazie all’intervento di Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova, che oltre ad essere un valente collega, fu anche testimone e vittima come manifestante.
C’è un filo, ci pare di intravedere, che lega quel che accade negli Usa – dove la polizia e i suprematisti bianchi hanno ucciso almeno 12 manifestanti solo negli ultimi giorni – con quel che avviene nelle banlieue francesi dove la polizia picchia duro sui neri e sui più poveri, e a Hong Kong dove è sempre più violenta la repressione ordita da Pechino contro chi pacificamente chiede libertà e democrazia. A legare queste realtà diversissime è un filo spinato di autoritarismo e di negazione dei diritti umani. Da questo punto di vista Cina e Stati Uniti ci appaiono come due giganti speculari e dai piedi di argilla. Anche per questo molto spazio dedichiamo su questo numero di Left sia alla lotta per la democrazia ad Hong Kong, con un reportage di Francesco Radicioni, sia a quel che sta accadendo negli Usa dove da molti giorni ormai va avanti una protesta incendiaria contro il razzismo di Stato.
Ma da Oltreoceano avanza anche una rivolta non violenta, intergenerazionale e interculturale, contro ogni forma di discriminazione scandita dallo slogan «Black Lives Matter». Il movimento nato nel 2014 negli Usa sta diventando un’onda internazionale di consapevolezza, di presa di coscienza e di profondo rifiuto della violenza, visibile e invisibile. Violenza che, in uno Stato fondato sul genocidio degli indiani e sullo schiavismo, si è tradotta in una quotidiana criminalizzazione del comportamento dei neri e delle minoranze per impedirne l’emancipazione. Un fenomeno tanto più evidente oggi che alla guida del Paese c’è un presidente espressione di una minoranza bianca suprematista, razzista, bigotta, armata fino ai denti, disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi.
Ma i riots che incendiano le strade nordamericane non rappresentano tutta la verità. Un immenso fiume di persone ha manifestato con responsabilità, con calma, con vibrante compostezza. Sono attivisti di Black Lives Matters, come dicevamo, sono i giovani di Bernie Sanders, sono gli ex Occupy, sono le donne della Women march che all’indomani della elezione di Trump inondarono le strade di Washington. Chissà che da quella parte dell’America dove ora si inizia a parlare di riforma della polizia (mentre il sindaco di New York annuncia di voler diminuire i fondi alle forze di sicurezza per dirottarli verso servizi sociali e per la comunità) non possa nascere qualcosa di nuovo e contagioso anche per noi.
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