Tutt’altro che inaccessibile, il capolavoro di Joyce nacque come romanzo popolare. Per il #Bloomsday di sei anni fa ne parlammo con il filosofo Giulio Giorello. Più volte lo abbiamo incontrato sulle nostre pagine, vogliamo ricordarlo così

Tradurre è sempre un po’ tradire. Ma può essere anche “trans ducere”, portando in luce un senso più profondo. E’ questo il caso della traduzione dell’Ulisse di James Joyce firmata da Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi uscita qualche anno fa per Newton Compton e che ha aperto la strada al nuovo, monumentale, lavoro di Terrinoni con Fabio Pedone: la traduzione del Finnegans wake, uscita di recente per Mondadori.

Il 16 giugno, il giorno in cui non solo in Irlanda ma in tutto il mondo si festeggia il Bloomsday, ecco cosa ha detto a Left il filosofo della scienza Giulio Giorello, grande appassionato di Joyce e grande conoscitore dell’Irlanda: «Sono particolarmente felice che si torni a parlare dell’Ulisse fuori dall’accademia. Troppo spesso la discussione fra eruditi dimentica che i versi di Dante erano cantati dal popolo a Firenze. Che chi andava a vedere Shakespeare, fra un palco e l’altro, arrostiva un montone o improvvisava un duello. In Joyce vibra la voce roca, ma affascinante, del coraggioso proletariato irlandese che nel 1916 nella cosiddetta Pasqua di sangue fece vedere i sorci verdi agli occupanti britannici».

In una lettera giovanile lo stesso Joyce si definiva «scrittore socialista» e, nonostante l’Ulisse sia poi diventato un libro di culto e per molti versi poco accessibile, nasceva dall’idea di scrivere una moderna Odissea che restituisse dignità alla vita quotidiana delle persone “qualunque”, come lo è il suo protagonista, Leopold Bloom.

«La traduzione dell’Ulisse uscita per Newton Compton ha il merito di far emergere il carattere democratico di questo meraviglioso romanzo che, per me – sottolinea il filosofo – è il più grande testo del Novecento. Qui ritrovo l’humour e un senso plebeo dell’esistenza molto Irish, che rende l’Ulisse così affascinante».

L’Ulisse fece storcere il naso a molti, fra questi Virginia Woolf che lo giudicava “un testo scomposto” e “disgustoso”, scritto da “un proletario autodidatta”. «Sarà certo vero quello che diceva la signora Woolf, ma per me» dice Giorello «fra l’ Ulisse e gli esangui, tristi, romanzi della Woolf c’è la stessa differenza che corre fra un buon whisky e un’aranciata». Poi entrando più nel merito della traduzione Newton Compton uscita a più di cinquant’anni da quella classica di De Angelis, il filosofo approfondisce: «Mi colpisce soprattutto la vitalità di questa versione. Che, per esempio, usa il tu in dialoghi chiave come quello fra Bloom (Ulisse) e Dedalus (Telemaco) quando, in una taverna, imboccano una discussione alta su scienza e religione». E poi, per fare un altro esempio, nella traduzione di Terrinoni e Bigazzi «si coglie tutta l’ironia di Joyce verso Darwin. Un caso per tutti: a proposito della tragica storia irlandese, Joyce parla di Destruction of the Fittest, qui correttamente reso come la distruzione del più adatto. E non come la distruzione dei migliori. Che sarebbe sbagliato». Joyce ben conosceva il dibattito sulle idee di Darwin fortemente osteggiato dai gesuiti e si divertiva a prendere in giro gli slogan dei darwinisti sostenendo che è la storia umana non riflette l’evoluzione ma quasi drammaticamente la contrasta».

E da notare è anche «che questa intuizione di Joyce, che era un cultore di Nietzsche, trova un preciso parallelismo in Umano troppo umano dove il filosofo tedesco mostra tutta l’ambiguità di un darwinismo ideologico e ingenuo». Quanto all’incipit invece? «In questo caso», ammette Giorello, «sono affezionato alla vecchia traduzione di De Angelis: “Solenne, paffuto, Buck Mulligan spuntò in cima alle scale” recitava. Qui invece si legge, “statuario e pingue”. Pensando forse al Falstaff shakespeariano che era molto presente nell’opera dello scrittore irlandese».

Shakespeare era indubbiamente un modello forte per Joyce, come scrittore a tutto tondo, interessato all’umano, inteso come corpo e mente. «E’ uno dei suoi grandi riferimenti insieme ad Omero e a Dante. Poi nel suo orizzonte ci sono due grandi filosofi napoletani: Giordano Bruno è più volte riecheggiato nel libro e Vico, che sarà uno dei grandi riferimenti di Finnegans Wake, compare già qui. E’ la grande sfida di Ulisse essere un grande poema in prosa irlandese e nello stesso tempo il grande poema dell’umanità nell’incertezza».

Gli strali verso i più ideologici epigoni di Darwin, intuizioni sull’idea di spazio tempo in linea con la teoria della relatività, ma anche Freud compare indirettamente nel romanzo. Come bersaglio critico. Joyce non amava Freud, è ben noto, e rispose da scrittore all’apertura all’irrazionale avviata dall’arte di inizi Novecento. Lo fece dilatando l’Ulisse a misura del tempo interiore del protagonista Leopold Bloom. E affidando il racconto a una lingua icastica, vitale, polifonica. «Insieme a Faulkner, Joyce è a mio avviso lo scrittore del secolo scorso che più di ogni altro ha colto il tempo del profondo» commenta Giorello. Quanto alla lingua era «innervata da uno spirito autenticamente democratico. La lingua che usa Joyce», ci ricorda Giorello, «è quella dei vetturini, degli agenti cambio, degli uomini della strada e dei pub. Era lontano anni luce da atmosfere intellettuali esangui. Nell’Ulisse ci sono la carne e il sangue di un popolo che era riemerso da una storia tragica, con una concezione». Peraltro, aggiunge il professore, l’Irlanda ne è uscita «con un’idea molto bella di tolleranza delle diverse scelte di vita. Con l’idea che la democrazia non è fare quello che vuole la maggioranza, ma significa seguire la vocazione delle minoranze, senza dimenticare il diritto di coloro che sono oppressi a ribellarsi».

Lo stesso Bloom in Ulisse esprime un’umanità ben diversa dall’eroe omerico maestro d’inganno e astuzia. «Qui l’eroe è anti omerico», precisa Giorello. «In questo senso Bloom è anche anti shakespeariano e, per esempio, scopertosi cornuto, conclude la faccenda con la signorile decisione di lasciar perdere. Un po’ come i personaggi dell’opera di Mozart che Joyce ama di più: ovvero le ragazze di Così fan tutte, non certo il Don Giovanni».

E qui il pensiero corre al libro di Giorello, Il tradimento, in cui Bloom è eletto a modello antimoralistico. «Beh invece della vendetta di Otello o del macello che fa Ulisse quando torna in patria, trovo che questa nonchalance di Bloom mostri tutta la dimensione amabile del personaggio: uomo non banale, sensibile, attento alle conquiste della scienza. E che forse a sua volta avrebbe qualcosa da farsi perdonare quanto a fedeltà. Una parola che è appunto motto dell’arma dei carabinieri, ma non so quanto utile nel rapporto fra uomo e donna».

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Articolo pubblicato su Left del 16 giugno 2012