Cos’è l’antifascismo per un quattordicenne? Come spiegargli il suo significato profondo? E come insegnare ai ragazzi la memoria, storica e civile, degli avvenimenti fondanti la nostra democrazia?
Se Piero Calamandrei invitava ad andare in pellegrinaggio nei luoghi dove è nata la Costituzione, recandosi nelle montagne dove caddero i partigiani, o nelle carceri dove furono imprigionati, in una scuola media inferiore di Pistoia, vicino ad alcune di quelle montagne partigiane, è stato messo a punto un modo ulteriore per far conoscere gli eventi di quel periodo così importante.
«Il metodo, semplice ma efficace, consiste nell’utilizzo delle piccole storie locali, quelle delle persone considerate comuni, per insegnare la Storia con la esse maiuscola. Alcuni anni fa, la mamma di un nostro alunno ci ha consegnato un piccolo diario dalla copertina nera dove erano appuntati i pensieri e le fatiche estenuanti di un soldato pistoiese, Giuseppe Ferri, durante la campagna di Russia».
Giulia Barontini è una delle tre insegnanti della scuola Martin Luther King di Bottegone (Pistoia) ad aver ricevuto in dono il diario, e insieme alle colleghe Silvia Mannelli e Francesca Banchini, ha intuito che quella breve autobiografia, dalla scrittura incerta a matita, poteva rappresentare uno strumento prezioso di lavoro e di conoscenza per i suoi ragazzi.
«Giuseppe ha partecipato alla campagna di Russia dall’aprile al dicembre del 1942, portando con sé una piccola agenda di pelle in cui ha annotato le sue esperienze, in maniera scarna e non senza errori, fino al congedo e al ritorno in Italia» precisa l’insegnante.
«Innanzitutto è stata necessaria la completa trascrizione del testo, non sempre facile, vista la difficoltà di decifrare alcune parole ormai quasi sbiadite, perché scritte con la matita,- continua Barontini – ma poi ne abbiamo capito il motivo. Semplicemente perché l’inchiostro, nel freddo della Russia, si sarebbe al contrario congelato».
Ma le difficoltà maggiori sono state altre: «L’aspetto più complicato ha riguardato i nomi delle località in quanto erano state riportate in base alla pronuncia italiana, mentre altre ancora, dopo la caduta dell’Urss, hanno cambiato nome e non riuscivamo a individuarle nelle carte geografiche», aggiunge.
Il piccolo diario però conteneva anche altri misteri: chi era il “tenente Arcadipane” menzionato dall’autore? Chi era il commilitone con il quale era riuscito a cucinarsi persino una frittata? Si erano salvati come Giuseppe o erano deceduti nella disfatta?
«Quel libriccino è diventato un vero e proprio rompicapo storico per tutti noi, e i ragazzi si sono enormemente appassionati alla vicenda. Ma per rispondere alle loro domande non erano più sufficienti gli strumenti di ricerca classici di una scuola – prosegue Barontini – e così è stato necessario rivolgerci al ministero della Difesa che ci ha indirizzato alla Banca dati dei caduti e dei dispersi delle due guerre mondiali, scoprendo ad esempio che tutti i compagni di Giuseppe, tranne pochissime eccezioni, erano purtroppo morti nella tremenda ritirata della campagna di Russia».
«L’altro enigma da risolvere – continua la docente – riguardava appunto i nomi delle località. In questo caso abbiamo scoperto, con l’aiuto dell’Archivio storico dell’Esercito, che molte denominazioni di luoghi erano state cambiate nel corso del tempo, mentre altri, come ad esempio il ponte “Sciangai”, erano nomi in codice dati dall’esercito stesso durante la guerra».
Da questa lunga ricerca, durata un intero anno scolastico, è nato il libro Il cuore batte nel pensiero edito nel 2018 da Sarnus.
«La pubblicazione del libro è stata sicuramente un’immensa soddisfazione, – conclude Barontini – ma l’aspetto più rilevante e gratificante, come docenti ed educatrici, è stato essere riuscite a coinvolgere i ragazzi appassionandoli alla grande storia attraverso la storia delle persone “comuni”. Leggere in prima persona delle emozioni di Giuseppe, dalla paura alla nostalgia per i familiari, dallo sconcerto per le interminabile marce nel gelo e per le azioni militari fino alla felicità per il congedo, è un modo quanto mai efficace per insegnare la materia. L’abbiamo umanizzata e resa così realmente accessibile a dei giovanissimi alunni delle scuole medie».
Nel 2019 è stato pubblicato un secondo volume, Una piccola storia. Storia di un italiano qualunque (Alvivo Edizioni), anch’esso nato dall’indagine e dalla ricerca dei piccoli “cacciatori di memoria”, come si sono autodefiniti gli alunni nel blog della scuola, incentrato sulla ricostruzione della vicenda del maestro elementare Filippo Benizzi sulla base del carteggio con la moglie. Oltre 140 lettere conservate in una cartella di legno, quella che lo stesso autore utilizzava da bambino per andare a scuola, sono state trascritte dai ragazzi e le cui informazioni sono state verificate ancora una volta all’Archivio storico dell’Esercito di Roma. La ricerca ha riportato alla luce una storia sconosciuta persino agli stessi familiari: la vicenda di un uomo che dopo l’8 settembre 1943 viene richiamato per essere arruolato come ufficiale con la Repubblica di Salò, tra tanti tormenti fisici e morali.
«Quella della scuola di Pistoia è un’ottima espressione della cosiddetta “buona memoria”, intesa come l’insegnamento della storia che ne permetta di cogliere il senso e il significato profondo da parte dei ragazzi, così che parole come antifascismo o Liberazione non siano solo ideali astratti ma compresi e sentiti interiormente» precisa Francesca Di Marco dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, che promuove e diffonde le “buone pratiche” per lo studio della storia, e che ha da poco organizzato un incontro sul rapporto tra memoria e territorio.
Ma in un momento di revisionismo storico come il nostro, la memoria è ancora uno strumento efficace? «È una questione che prevede una risposta complessa, ed azioni altrettanto complesse e molteplici, con un investimento pubblico costante che purtroppo è ad oggi carente. In relazione all’insegnamento, – conclude Di Marco – e di come pensiamo di formare futuri cittadini consapevoli, la risposta è appunto la “buona memoria”. Per smontare le narrazioni tossiche dei nostri tempi, è necessario il coinvolgimento in prima persona dei ragazzi. La retorica con loro non funziona, tanto meno una didattica meramente cronologica. La memoria è un esercizio continuo che li deve riguardare direttamente, solo così potranno possedere le coordinate per leggere il presente. Solo una società che ha memoria è una società sana, e il più possibile immune da falsi revisionismi».