Perché non lanciare l’idea di grandi aziende europee per grandi piani economici europei?

Dopo otto giorni di Stati generali in quel di villa Pamphilj, Giuseppe Conte ha comunicato che presenterà a settembre il piano per il rilancio economico, che terrà conto di quanto emerso nei confronti avuti, naturalmente aperto a tutte le convergenze (con una attenzione particolare a Forza Italia). Il riferimento di fondo è al Recovery fund. La questione più immediata è l’esigenza di un nuovo scostamento dal pareggio di bilancio (che conferma l’assurdità di averlo messo in Costituzione). E poi subito dopo la norma sulle semplificazioni (che visto quanto previsto dal piano Colao in termini di deregulation crea molta preoccupazione).

Ma a che punto siamo veramente? Finora si sono spesi molti soldi per evitare il collasso. La parte prevalente, in modi diretti (sovvenzioni e sgravi) o indiretti (cassa integrazione e ammortizzatori), sono stati indirizzati alle imprese. La partita europea è aperta e incerta sia sul fronte interno, dove il presidente del Consiglio deve fare i conti con le spinte pro Mes, che su quello dell’Unione, dove il nodo Recovery fund è ancora sa sciogliere, e non solo quello. E poi c’è la spada di Damocle di un patto di stabilità che è solo sospeso e se tornasse ci troverebbe realmente in una situazione drammatica. Molte questioni restano sospese e critiche, dalla riapertura delle scuole agli assetti istituzionali ipotecati dall’autonomia differenziata.

Di certo c’è una spinta fortissima a ristabilire lo status quo intorno ai dogmi del trentennio neoliberista, e cioè: azienda, privato, mercato. Il piano Colao, che apriva le danze, va in questa direzione. E la pressione di poteri economici e mass media è molto forte.

Cosa possiamo allora suggerire noi a Conte e al Paese? Prima di tutto di prendere molto sul serio i tanti Stati alternativi che si sono cimentati in tutto questo periodo. Movimenti, sindacati, intellettuali hanno preso molto sul serio il bisogno di cambiare, spesso mettendo insieme il fare, l’aiutare, col pensare diverso. Qui su Left si possono trovare da mesi, e in questo numero, tante idee che rovesciano lo schema “privato è bello” e dimostrano che, al contrario è dal pubblico, dal comune, che è bene ripartire. La vecchia musica che alcuni si ostinano a suonare rischia di essere più quella dell’orchestrina sul Titanic che la Filarmonica di Berlino. Cito la prestigiosa strumentistica della città della Porta di Brandeburgo, la prima che ha ripreso a suonare dal vivo, non a caso. Perché in questo contributo anche io metto al primo punto di questi consigli il che fare con le aziende ma penso che supertecnici, confindustriali e intellettuali ortodossi dell’orchestrina non abbiano proprio capito che musica si pensa di suonare nella Capitale reale dell’Europa reale.

Diciamo che il tirare a campare restando attaccati ad un carro, traendo profitto dal vincolo esterno dell’austerity per abbassare salari e prestazioni sociali, adesso diventerebbe, con buona pace di Andreotti («meglio tirare a campare che tirare le cuoia», diceva) precisamente un tirare le cuoia.

Già adesso lor signori hanno lasciato sul campo della competizione ordoliberista – parola difficile che in sostanza vuol dire che lo Stato non è garante dei cittadini ma del mercato – e con le regole dell’austerity, un buon 25% dell’apparato manifatturiero del nostro Paese. Non ha retto la concorrenza. E il cuore di questo apparato si trova in quella Pianura padana che non sta messa proprio bene.

Che farei? Magari prendere il toro per le corna, anzi due tori. Il primo, come accennavo, è proprio la azienda produttiva. Il secondo è questa Europa: non se ne può più che vada avanti così in una trattativa infinita e miserabile sui fondi con l’attesa che Merkel divenga, a luglio, presidente di turno dell’Ue e nell’attesa che arrivino soldi da spartire tra la famelica Confindustria, i governatori regionali e le briciole alla gente che poi dovrà pagare i debiti.

L’Ue è così perché è sostanzialmente un mercato interno tra Stati e globalizzazione. Ma se Germania e Francia stanno pensando di riattrezzarsi nella globalizzazione colpita da virus e, prima, da crisi finanziaria, come “campioni europei” in una mondializzazione per reti e grandi aree, non sarà il caso di lasciar perdere l’orchestrina e provare a suonare un’altra musica?

Mi spiego. Perché non lanciare l’idea di grandi aziende europee per grandi piani economici europei? Europee per proprietà e grandi piani perché pensati e programmati dall’Europa. Dalle reti (dove l’Europa è sostanzialmente fuori) alla conversione ecologica.

Basta con la miserabile concorrenza sul sedicente mercato interno Ue fatta a colpi di ribassi sul costo del lavoro e pressione fiscale. E basta depredazioni da multinazionali battenti bandiere aliene che spingono l’Europa verso il basso. Siccome è bene esplicitare: penso che queste grandi aziende a proprietà europea e questi grandi piani si realizzano con il pubblico. Nella proprietà e nell’indirizzo. Se si vuole essere onesti si dovrebbe riconoscere che la grandezza dell’Europa, quella che ha sostituito…

L’editoriale prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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