Introduzione al libro di Left "POVERA ROMA. Sguardi, carezze e graffi"

Dalla Borgata Finocchio all’Isola Farnese, da Castel di Guido ai filari della malvasia puntinata, dalle chiuse della Flaminia alle idrovore della Magliana, dal Mandrione al Casermone, dai boschi della Marcigliana alle spiagge di Castel Porziano, da Casal del Marmo a Casal de’ Pazzi, dai due leoni alle tre fontane, dai quattro venti, dall’acqua mariana all’acqua acetosa, dai depositi di travertino alle cave di pozzolana, dalla Valle dei Casali alla Valle dell’Inferno, da Settebagni a Settecamini a settemetri.

1. Nel 2020 Roma moderna compie 150 anni. In questo secolo e mezzo la città è cresciuta sessanta volte tanto. Ma piuttosto male, in verità. Diciamolo, non è venuta per niente bene. Il suo meraviglioso centro antico, le aree archeologiche, il reticolo medievale, le grandiosità rinascimentali, il sistema sistino, le morbidezze barocche, le chiese, le piazze, le fontane, le scalinate, Michelangelo, Bernini, Borromini, Valadier, tutto questo è ancora lì, più o meno conservato, a stento sopravvissuto a sventramenti e demolizioni. Ma quel che selvaggiamente le è cresciuto intorno, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, è stato un susseguirsi di frettolosi riempitivi di risulta, senza garbo né slancio.

Pezzo dopo pezzo, si sono impadroniti di superfici e spazi spalmandosi informi e sgraziati come un fluido granuloso, opaco e appiccicoso. Che peraltro continua ancor oggi silenziosamente a spandersi.
Bisognava allora lasciare la città al suo destino straccione e decadente, con il papa re e le nobili famiglie del sacro soglio, con i rioni luridi e puzzolenti e la marmaglia querula e mendica? Se proprio si vuol giocare con la storia, verrebbe allora da chiedersi cosa sarebbe accaduto se la Repubblica Romana di Mazzini, Garibaldi e Ciceruacchio avesse potuto prolungare la sua rivoluzione, con Napoleone III in ritirata e il bieco Pio IX a Gaeta tra i fidi borboni.

Quel che in ogni caso si può sostenere è che se in questi centocinquant’anni le cose sono andate come sono andate, di sicuro Roma ne è stata più vittima che artefice.
Non appaia retorico il riferirsi alla storia, poiché per molti versi si è ancora alle prese con quella “questione romana” tanto controversa quanto rimossa, che sembra non aver mai soluzione né esito condiviso. Roma proclamata capitale più per impatto simbolico che per convinzione politica, più per rassegnata convenienza che per scelta strategica: più costretta che consapevole, mai del tutto riconosciuta, mai del tutto accettata.

Vogliamo per caso paragonare Roma alle altre capitali europee? La sensibilità e l’orgoglio con cui sono percepite e vissute, rispetto alla svogliata trascuratezza, se non ambigua ostilità, con cui si sopporta Roma? Oppure il rispetto e l’attenzione con cui gli stati centrali intervengono a Londra, a Madrid o dove si vuole, rispetto allo sguaiato consumo con cui s’imperversa su Roma? O ancora le ingenti risorse che altrove s’investono e qui a Roma al contrario si lesinano o addirittura si tagliano?

Capita spesso di ascoltare i racconti di chi torna da Parigi o da Berlino e ne magnifica le condizioni, i servizi, le atmosfere, o si compiace d’aver girato gradevolmente in metro o visto quella mostra, visitato quel museo. Capita poi che tali entusiasmi precipitino sulle differenze tra quelle capitali e la nostra: differenze evidenti, dolorose e a volte anche stridenti.
Per quanto un po’ irritanti i francesi e a volte noiosi i tedeschi, sono comunque più bravi di noi? Più puliti, più rispettosi, più coscienti, più colti? Seppur stuzzicante, non è questa la domanda giusta. La domanda da porre è la seguente: quante risorse riversa la Francia a Parigi e quanto v’investe direttamente, quanta autonomia amministrativa e funzionale la Germania ha trasferito a Berlino e quanto quest’ultima può decidere sui suoi assetti e sulle sue pertinenze?

2. Essere una grande capitale contemporanea non è una sterile autodefinizione da stampare sulla carta intestata, né, tantomeno, alludere a riferimenti identitari su inesistenti romanità e grotteschi e remoti fasti. È innanzitutto assicurare ai suoi abitanti benessere economico, giustizia sociale, qualità culturale. Ma più in generale, assumere un ruolo internazionale nelle grandi campagne per la pace, per l’ambiente, per la solidarietà; valorizzare il profilo civile e democratico, come esito di un nobile passato e impegno per un promettente futuro; esaltare la funzione politica di modello d’accoglienza, inclusione e fraternità tra i popoli.
Obiettivi e traguardi di notevole portata, che comportano cooperazione e partenariati internazionali, iniziative a largo raggio e un tempo non certo breve. Ma che certo non si potranno mai raggiungere senza un cambiamento strutturale, e cioè l’attuazione di una riforma che conferisca alla città un’ampia autonomia politica, istituzionale, amministrativa.

Attualmente Roma ha le stesse attribuzioni di qualsiasi altro Comune italiano, anche il più minuscolo, e più di altri subisce i vincoli amministrativi degli enti sovraordinati, lo Stato e la Regione. Riceve dal bilancio statale mediamente meno di altre città, non può contare su qualsivoglia integrazione finanziaria per le funzioni capitali che svolge, e gli stessi investimenti centrali sulla città, sui beni culturali, sulle infrastrutture, sulle opere strategiche, si riducono sensibilmente, esercizio dopo esercizio.

Non può dunque sorprendere che questo trattamento deficitario, unito all’esigenza di corrispondere a quanto la città necessitava e a quanto era d’obbligo spendere per le incombenze extra-comunali, abbia nel tempo generato una ragguardevole esposizione debitoria. Un accumulo di spesa, che si è inoltre gonfiato sia per i decenni di sprechi, disfunzioni e surplus tangentizi e clientelari, sia per realizzare tutte le urbanizzazioni a cui il Comune si costringeva per inseguire un’edilizia privata vorace e non di rado speculativa, che il Comune stesso autorizzava.
Una passività talmente cospicua, ulteriormente aggravata da reiterati mutui bancari compensativi, da diventare sostanzialmente inesigibile. Roma insomma intrappolata dai cravattari: e che di conseguenza vede ogni anno il suo bilancio decurtato in partenza dal pagamento di interessi bancari non certo indulgenti, cosa che comporta sensibili riduzioni su servizi e investimenti e più in generale una seria difficoltà nello sviluppare proprie politiche economico-finanziarie.

È una profonda lesione di quell’autonomia che la Costituzione assicura agli enti locali. Una città prigioniera del sistema bancario e di fatto sottoposta a un’amministrazione controllata da parte del governo centrale. E invece di liberarsi da queste catene e pretendere quel rispetto che la capitale richiederebbe, come pavidi questuanti, i sindaci implorano aiuti e prebende e nel contempo aumentano tasse e bollette. Alemanno prima, Marino dopo e oggi la stessa Raggi, tutt’e tre con il cappello in mano sull’uscio del Tesoro.

Ma Roma non è debitrice, bensì creditrice. E se non spezza quei vincoli finanziari che essa stessa si è ahinoi cucita addosso, se non rivendica quanto dovuto, se non si spoglia da quei panni bisognevoli e non riafferma la sua autorevolezza politica, il suo primato istituzionale, continuerà a scivolare lungo quel tragitto accidentato e miserabile che allegri creditori e politici spregiudicati le hanno cinicamente riservato. Esposta a corruzione e malaffare, preda di affaristi e faccendieri, se non proprio di stracciamutande e peracottari.
È questione centrale, quella dei poteri e delle risorse. Non si può più tralasciare, rinviare, accantonare. E condizione indispensabile per poterla affrontare e infine risolvere, è un Campidoglio forte e consapevole, con una statura istituzionale e uno spessore culturale indiscutibili, ovviamente investito dal consenso elettorale e soprattutto confortato dal sentimento popolare.

3. Ma purtroppo è tutto ciò che da tempo manca alla politica romana. Basta dare un’occhiata dalle finestre del Palazzo senatorio, per averne desolante conferma. Chi oggi governa la città è un insieme di improbabili amministratori, insicuri e presuntuosi, inadeguati e pasticcioni, ottusi e capricciosi. Arrivati su quel colle più per dispetto che per scelta: depositari di quella malintesa quanto vana speranza che potessero ridare slancio e smalto o quantomeno riordinare un po’ le cose, portar via le sparse macerie e ricominciare. Per l’evidente impresentabilità di tutti gli altri, hanno ricevuto più consenso di quanto realmente meritassero, hanno raccolto le fiduciose aspirazioni di una città esausta e maltrattata. Ma invano.

La città continua a essere sfinita e sfiduciata, anzi forse ancor di più. Schernita nelle cronache e dileggiata impietosamente: tra scale mobili che risucchiano e ascensori che s’inabissano, scrofe assassine che mordono e molesti gabbiani in picchiata, buche stradali che inghiottono, autobus che fiammeggiano, alberi che precipitano.

POVERA ROMA Sguardi carezze e graffi

Se non ci fosse, Roma sarebbe un deserto culturale, un cimitero politico. Tra le macerie ereditate e le rovine procurate, c’è invece una moltitudine di antieroi che si batte e si sbatte in ogni angolo della città.

Giorno dopo giorno percorre quel confine che separa chi ha e chi non ha, chi è e chi non è. Lotta per soddisfare bisogni e difendere diritti, seminare speranze e coltivare intelligenze, spesso isolati, contrastati, perseguitati.

Globuli rossi che scorrono nel sistema sanguigno cittadino, nutrendolo con enzimi e vitamine. Sono i ribelli consapevoli che animano la rete associativa, l’attivismo politico, la militanza sociale, la tensione civica: un’estesa movimentazione del conflitto che rivendica una città giusta e accogliente, vivace e vivibile.

Questo libro è stato scritto dalle donne e gli uomini che agiscono questo conflitto, e siamo convinti che solo con loro a Roma si potrà accendere una nuova stagione politica.

Paolo Berdini, Federica Giardini, Enzo Scandurra, Roberto Giordano, Keti Lelo, Salvatore Monni, Federico Tommasi, Giulia Rodano, Margherita Grazioli, Fabio Alberti, Ilaria Campana, Michele Citoni, Céline Menghi, Monica Di Sisto, Sandro Medici, Grande come una città, Patrizia Sentinelli, Viola Lo Moro, Valerio Giuseppe Carocci, Andrea Maccarrone, Gigliola Cultrera, Soumaila Diawara, Fabrizio Nizi, Alberto Campailla, Collettivo Angelo Mai, Chiara Franceschini, Andrea Costa, Maura Cossutta, Marilena Grassadonia, Giulia Pezzella, Anna Pizzo, Nando Simeone,
Alessandro Laruffa e Chiara Cavallaro