Nella notte del 14 agosto nel Centro permanente per il rimpatrio in provincia di Gorizia, come riportano con video e foto gli attivisti di No Cpr No Frontiere Fvg, le tensioni per la situazione delle persone trattenute sono state represse in modo violento dalle forze dell'ordine. Situazione difficile anche in altri Cpr

Capita ormai regolarmente che durante i giorni più torridi dell’estate, quando il caldo diventa insopportabile, anche nei Centri permanenti per il rimpatrio, le tensioni perenni sfocino in uno stato di rivolta permanente. Il divieto di accesso ad osservatori esterni che non siano il Garante per i detenuti – che però entra solo dopo richiesta – o  qualche sparuto deputato, i timori connessi alla pandemia, hanno permesso di sottacere più che in passato queste condizioni insopportabili in cui si consumano soprusi. A Gradisca D’Isonzo, provincia di Gorizia, nell’ex Caserma Polonio, il Cpr ha riaperto da gennaio e, come abbiamo già ricordato, già due persone trattenute ci hanno perso la vita.

Alla vigilia di Ferragosto c’è stata l’ennesima rivolta. «Da inizio luglio – scrivono gli attivisti del gruppo Assemblea No Cpr No Frontiere Fvg – Infatti da inizio luglio all’interno del centro i detenuti hanno dato luogo a diverse rivolte, incendiando parte delle camerate e compiendo frequenti atti di autolesionismo, talvolta anche molto gravi. A queste le forze dell’ordine presenti nella struttura hanno risposto frequentemente con una repressione violenta, che, da quanto ci è stato detto dai detenuti, ha mandato alcuni di loro all’ospedale ed è avvenuta dopo aver disattivato il sistema interno di videosorveglianza o minacciando altri reclusi di ritorsioni nel caso avessero fatto uscire video o immagini da quelle mura. Frequenti sono state anche le denunce per danneggiamento o resistenza a pubblico ufficiale che rischiano di prolungare il trattenimento di queste persone nel centro. Così come in altre occasioni anche dopo i fatti del 14 agosto la maggior parte dei mezzi d’informazione ha riportato esclusivamente le versione della Questura di Gorizia, omettendo di citare la violenza subita dai reclusi, testimoniata anche da video e immagini che abbiamo pubblicato sul nostro blog».

Tanti gli elementi di criticità in una struttura accanto a cui sorge un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e in una zona fortemente interessata dagli spostamenti che interessano la rotta balcanica. Ma il Cpr è il punto in cui più si sono espresse le incompatibilità fra politiche migratorie e diritti delle persone. Fra le assurdità il fatto che dopo i fatti di Piacenza, un ragazzo marocchino che aveva denunciato abusi subiti in quella caserma nel 2017 è stato trasferito nel centro. Il ragazzo, insieme ad altri 15 trattenuti, in gran parte provenienti dal Marocco, è stato poi trasferito nel centro romano di Ponte Galeria. Uno dei 15, denunciano sempre gli attivisti della Rete friulana, è anche padre di una neonata e il suo trattenimento poteva non essere convalidato ma, utilizzando la mancanza di alcuni documenti, il giudice di pace di Gorizia competente ha negato il suo rilascio. I trasferimenti erano ovviamente congeniali anche alla ripresa dei rimpatri post Covid. Oggi la situazione a Gradisca è ancora più assurda, oltre al Cpr e al Cara è stato creato un “campo quarantene”, si tratta di due piccoli “villaggi” nei pressi dei centri, 46 persone sono distribuite in tende e 25 in moduli abitativi. Nessuna persona ancora positiva ma chi è in tali spazi sa che ha come sola prospettiva quella di tornare nei rispettivi centri.

Anche negli altri Cpr agosto si sta dimostrando insostenibile. A Ponte Galeria, sotto Ferragosto c’è stato un rocambolesco tentativo di fuga. In sei si sono introdotti nei condotti dell’aria climatizzata, sono arrivati sul tetto, hanno raggiunto il muro di cinta e sono usciti. In 5 sono stati ripresi uno è riuscito a far perdere le sue tracce. Il 17 e il 20 luglio c’erano stati altri due tentativi falliti ma non romanzeschi come questo. Gabriella Stramaccioni, garante del Comune per i diritti delle persone private della libertà personale, ha definito il Cpr un vulnus legale e dei diritti umani, ma anche per le condizioni sanitarie il centro presenta criticità gravi. Lo scorso anno una badante ucraina è stata fermata per strada e portata al Cpr dove ha perso la vita, sembra per problemi cardiaci.

Il centro non è attualmente sovraffollato – ci sono 43 uomini e 9 donne, potendo ospitare complessivamente 180 persone eppure resta una bomba ad orologeria. Secondo la Garante il centro deve chiudere, secondo gli agenti del Silp o cambiano le modalità di gestione e aumenta il personale o è impossibile garantire l’incolumità delle persone. Impossibile entrarvi con telecamere per poter documentare e denunciare le condizioni di invivibilità. Neanche gli ingressi “a sorpresa” sono permessi e le sole immagini che arrivano sono quelle inviate agli attivisti anti Cpr dai trattenuti.

Nel nuovo Cpr aperto a Macomer, nel nuorese, dove a giugno alcuni trattenuti erano arrivati a cucirsi la bocca per protesta ora da una parte sono nel caos gli uffici del Giudice di pace, oberati da pratiche e con scarso personale, dall’altra, con l’eccessiva militarizzazione, buona parte del paese chiede la chiusura della struttura. Non va meglio nel Cpr di Bari dove il 19 agosto è stato sventato l’ennesimo tentativo di fuga o negli altri rimasti attivi. In periodo post covid, dopo una fase in cui erano diminuite le persone di cui era stato convalidato il trattenimento (a maggio 2020), c’è stata una ripresa dei fermi e oggi, complessivamente sono oltre 350 le persone rinchiuse.

Il bilancio dello scorso anno, reso noto dal Viminale è dimostrazione di fallimento. Il 46,5% delle persone prese è stato effettivamente rimpatriato, gli altri o in fuga, o arrestati per le rivolte o, molto spesso liberati perché non identificati o perché il trattenimento non era stato convalidato. A fronte di un bilancio simile le proposte di riforma in materia elaborate ad oggi dal ministro dell’Interno sono unicamente di una diminuzione dei tempi massimi di trattenimento, dagli attuali 180 giorni a 120, forse a 90 eppure, come abbiamo già avuto modo di denunciare lo scorso anno col nostro libro Mai Più, sono ormai 22 anni che queste strutture ad avviso di chi scrive, illegali esistono, provocano inutili danni e sofferenze, sono spesso causa di morte, costano milioni, di euro l’anno, cambiano nome ma non sostanza ma continuano ad essere sponsorizzate come lo strumento per combattere la clandestinità e a garantire la “sicurezza”. Ma di ragioni per farla finita con questa oscenità se ne accumulano giorno dopo giorno e la sola scelta di sinistra che potrebbe essere fatta è quella di chiudere definitivamente ogni struttura simile, favorendo realmente i percorsi di regolarizzazione. Un’utopia.

Per approfondire invitiamo a leggere il nostro libro inchiesta sul tema