Leader delle lotte indigeniste, autore di misure anti-povertà e della nazionalizzazione del gas, dallo scorso novembre l’ex presidente Morales è costretto all’esilio. Oggi, da lontano, segue la nuova campagna elettorale. Mentre cresce lo scontro tra sinistra e governo golpista

Evo Morales non è più in Bolivia ormai da quasi un anno, dal novembre 2019. Il compañero presidente è lontano dal suo popolo, che retoricamente amava definire la sua “famiglia”. Ma cosa è successo in Bolivia? Perché un Presidente così amato, che ha governato ininterrottamente per quasi quindici anni, è stato costretto a rassegnare le sue dimissioni e fuggire? C’è stato effettivamente un colpo di Stato o la sua rinuncia alla carica presidenziale è il riflesso di mesi di protesta? La risposta a questa domanda è che non è tutto o bianco o nero: gli eventi che hanno preceduto la fuga di Morales dal Paese hanno rappresentato sia un colpo di Stato militare che un momento di protesta di massa, riflesso di un processo di disgregazione del suo consenso. Con le dimissioni di Morales si è dunque chiusa un’epoca nella regione latinoamericana. Quella della “marea rosa”, nata dalla volontà di cambiamento e di inclusione, che ha generato risposte radicali e diverse dalle politiche neoliberali, dal governo di Chavez in Venezuela a quello di Nestor Kirchner in Argentina.
Morales è stato uno tra i leader latinoamericani che tanto di quel cambiamento ha portato nel Paese andino. Un uomo di umili origini, di etnia aymara cresciuto nella regione del Chapare, a est delle Ande. Un cocalero, coltivatore di coca, pianta che in Bolivia ha una tradizione millenaria, utilizzata in particolare per la medicina, le cerimonie religiose e la produzione di tè. Muove i suoi primi passi nel sindacato proprio in difesa di questa pianta, contro l’eradicazione della coca, che significava al contempo l’eradicazione di usi e costumi dei popoli originari. Le battaglie indigeniste hanno costituito il perno centrale del suo impegno politico. In Bolivia, all’epoca, circa il 69% della popolazione era costituito da etnie indigene, in particolare quelle quechua e aymara.
Nel 1995 Morales ha fondato il Mas (Movimiento al socialismo), strumento politico della Confederación sindical única de trabajadores campesinos de Bolivia (Confederazione dei sindacati contadini – Csutcb). Nato da un nucleo di cooperative rurali sindacaliste e di coltivatori di foglia di coca, l’ascesa al potere del Mas è iniziata a metà degli anni Novanta. Con una forte base etnica, ma non escludente, come nel caso degli altri movimenti indigenisti latinoamericani. Infatti, il successo di questo partito è derivato dal suo carattere etnopopulista, che ha permesso di far identificare con il movimento non solo gli indigeni, ma anche l’ampio gruppo di mestizos e di bianchi, delle cui rivendicazioni si è fatto portavoce. Il leader aymara ha avuto la capacità di coniugare le lotte, dalle campagne alle città, facendo così estendere territorialmente il Mas e integrando nuovi attori sociali.
In questo senso, le mobilitazioni sociali tra il 2000 e il 2005 sono state fondamentali per accrescere la popolarità di Morales e dei movimenti sociali nel Paese. In particolare, sono state cruciali le proteste contro la privatizzazione dell’acqua nel 2000 e quelle del 2005 a favore della nazionalizzazione del gas boliviano. Le proteste di quell’anno si sono intensificate a seguito dell’approvazione di una nuova legge sugli idrocarburi che non prevedeva il controllo nazionale delle riserve di gas, come rivendicato dai leader popolari: scioperi, marce e blocchi di autostrade hanno congelato l’attività delle principali città boliviane, costringendo il presidente Mesa a fuggire dal Paese. Lasciata vacante la carica presidenziale, nel dicembre 2005 i boliviani sono stati chiamati a scegliere un nuovo presidente. Evo Morales è..

L’articolo prosegue su Left del 21-27 agosto 2020

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