C'è chi crede che votando Sì al referendum si puniscano le oligarchie politiche. Mentre è vero il contrario. Esse continuerebbero a nominare, e dunque controllare, i candidati, e anzi avrebbero un rischio inferiore di ritrovarsi tra le mani parlamentari "infedeli"

L’esito del referendum sul taglio del numero dei Parlamentari, previsto per il 20-21 settembre, è diventato contendibile. E quando il piatto è ricco i duri cominciano a giocare. Il piatto è la gestione della ricostruzione dalle macerie della crisi pandemica con i soldi Ue (del Recovery fund in primis), tra prestiti a basso interesse e contribuzioni a fondo perduto – a cui io ritengo si aggiungerà fatalmente il Mes – ed è una guerra che lascerà vincitori e vinti, non di breve, ma di lungo periodo.

Se mi è consentito un paragone, accosterei questo periodo al Secondo dopoguerra italiano: tra la svolta di Salerno (1944), il governo di unità nazionale, il referendum per la Repubblica (1946), la scelta di campo occidentale, l’estromissione di socialisti e comunisti dal governo (1947), il Piano Marshall (nome ufficiale “European recovery program”) e le prime elezioni politiche, entrambi del 1948.

La parola chiave era all’epoca, ed è anche oggi, “ricostruzione” (recupero, recovery in inglese). Parola che la Presidente uscente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha associato alla Costituzione, nella Lectio degasperiana 2020, che ha tenuto a Pieve Tesino (Tn), luogo natale di Alcide De Gasperi nel 1881, lo scorso 18 agosto.

Come nel dopoguerra, anche questa partita si gioca in quattro anni: l’arco di tempo che divide le elezioni del 4 marzo 2018 e la fine del mandato del Presidente della Repubblica in carica nel febbraio del 2022. Ma il risultato del match, in buona parte, si deciderà in due giorni, il 20 e 21 settembre, quando si andrà alle urne per decidere quale sarà l’assetto del Parlamento. Un appuntamento non preceduto da una campagna informativa all’altezza dei problemi. Non a caso.

Si vorrebbe infatti che il popolo legislatore costituente, come corpo elettorale massa, agisca pavlovianamente, non come soggetto cosciente ed informato. Nella misura in cui dal 2005 il popolo non può scegliere, cioè eleggere, i parlamentari con un voto libero, segreto, uguale e personale (art. 48 Cost.), sarebbe assurdo che possa adesso decidere liberamente in quale Repubblica voglia vivere. Gli italiani, come i loro parlamentari nominati dalle oligarchie politiche (nel migliore dei casi, quando non sono scelti dal capo-proprietario del partito), possono solo ratificare le decisioni di un Parlamento telecomandato dall’esterno.

D’altronde, ridurre i parlamentari significa ridurre i rischi di nomine sbagliate: ci saranno sempre degli ingrati che penseranno che ognuno di loro rappresenti la Nazione, cioè il popolo sovrano, senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.) e che si debba esercitare il mandato con disciplina (rigore morale, non ubbidienza) e onore (art. 54 Cost.). Con il voto referendario il popolo deve solo reagire alle proprie frustrazioni e farsi guidare dalle proprie paure punendo la Casta, o meglio pensando di farlo, dato che i suoi capi sono comunque al riparo, perché nella legge elettorale, maggioritaria o proporzionale che sia, le candidature sono, comunque, bloccate, comprese quelle nei collegi uninominali.

Questo il quadro attuale. C’è però una grande differenza rispetto al Secondo dopoguerra: l’assenza di grandi personaggi, come Nenni, Togliatti e De Gasperi, non soli nei grandi partiti ma anche nei piccoli, come Luigi Einaudi, liberale, o Piero Calamandrei, azionista liberal-socialista. Inoltre, gli eredi di Togliatti e De Gasperi sono nello stesso partito, e nel Parlamento non sono adeguatamente rappresentati gli eredi di Nenni, Einaudi e Calamandrei.

Ora, il primo messaggio subliminale trasmesso dagli ambienti che sostengono il Sì è stato “inutile opporsi, i Sì stravincono”, ma di fronte all’assenza di argomenti razionali e convincenti a favore del taglio del Parlamento, oltre che quelli di bassa demagogia, il messaggio è stato modificato con “le vere questioni sono altre, votare Sì o No è la stessa cosa”. Secondo un illustre giurista democratico, infatti, il popolo si troverebbe nella posizione dell’asino di Buridano. Oppure, altro messaggio dei sostenitori del Sì: “Non servono correttivi, come un nuova legge elettorale”, che paradossalmente per altri motivi sarebbe anche vero, perché sarebbe con soglia di sbarramento al 5% (trattabile) e con liste bloccate (immodificabile).

Il popolo deve esser espropriato dalla Casta che fa finta di combattere la casta dei parlamentari da essa nominati, per non individuare i responsabili della pauperizzazione delle classi popolari, con la disoccupazione femminile e giovanile, la precarizzazione dei posti di lavoro, la destrutturazione del welfare State a cominciare dal Servizio sanitario nazionale e dall’istruzione pubblica, da quella elementare a quella universitaria, che non riduce le diseguaglianze dei punti di partenza e non è un efficace strumento di ascensione sociale.

Una volta spettava alle elettrici e agli elettori “tagliare” i parlamentari, decidendo chi rieleggere e chi no, individualmente, uno per uno, non del 36,50% come previsto dalla legge costituzionale in questione, tranne che per quanto riguarda i senatori del Senato nel Trentino-Sudtirolo ridotti del 14,28% a spese della rappresentanza in Senato di Umbria e Basilicata ridotta del 57,14% o del Friuli-Venezia Giulia ed Abruzzo del 42,85%.

Finora nessuno dei sostenitori del Sì, o dei laudatori delle decisioni di inammissibilità dei ricorsi contro il taglio dei parlamentari operate dalla Corte costituzionale, ha mai spiegato a lombardi, campani e calabresi perché sono necessari rispettivamente 313mila, 320mila e 327mila loro cittadini per ottenere un senatore, mentre se sei un trentino-sudtirolese ne bastano 171.500.

Nella battaglia referendaria si scontrano due mondi. Da un lato, chi ritiene pericoloso rompere il patto costituzionale compresi i suoi “principi supremi”, tra i quali primeggia quello di uguaglianza dei cittadini (art. 3), del voto (art. 48) e di candidatura (art. 51) secondo quanto enunciato nella sentenza n. 1146/1988 della Corte costituzionale. Dall’altro, chi pensa invece che non è vero che – come recita proprio quel pronunciamento della Consulta -: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».

Il primato appartiene alla politica e la scelta di non creare problemi al governo è la Suprema lex, ma non la Salus rei publicae. Siamo in un momento di crisi non solo politica, ma istituzionale. Il Parlamento si è auto-delegittimato e gli organi di garanzia costituzionale, frutto contingente di un pluralismo di formazione ancora operante, sono paralizzati dalle troppe zone d’ombra dei controlli di costituzionalità. Pur deluso dalle sue ultime decisioni, rimpiango che i membri di questa Corte, senza eccezione alcuna, non siano stati nominati a vita come quelli della Corte Suprema degli Stati Uniti.

Per approfondire: “La democrazia non è scontata”

ACQUISTALO QUI

SOMMARIO