La band con la loro ShamStep, musica dance di Bilad Al Sham, porta avanti una ricerca sull’identità non solo musicale ma anche filosofica e storica della Palestina. Come dimostra Semitics, il loro nuovo album

Il loro nome è simbolo della libertà di movimento e della Palestina libera. Sono i 47Soul, band di origine palestinese, i cui musicisti, quando il gruppo è nato, si trovavano tra la Palestina, la Giordania e gli Stati Uniti. In occasione dell’uscita del nuovo disco Semitics, (Cooking Vinyl/Egea Music/The Orchard) il 21 agosto, siamo tornati a incontrarli.

Per chi non vi conoscesse ancora: come è nato il gruppo 47Soul e qual è il significato del nome?
Abbiamo collaborato con il rapper iracheno-britannico Lowkey per la nostra canzone “Hold Your Ground”. Dato che ognuno aveva passaporto e carta di identità diversi, uno dei pochi Paesi arabi dove potevamo trovarci tutti insieme era la Giordania, dove il gruppo è nato nel 2013, ma dove non potevamo sostare a lungo. Allora la band si è spostata a Londra e lì abbiamo lavorato per cinque anni. Il nome 47Soul si riferisce all’ultimo anno in cui erano ancora aperte le frontiere tra Palestina, Libano, Giordania e Siria, il territorio che si chiama Bilad Al Sham o il Levante. L’occupazione della Palestina è cominciata nel 1948. Ci piace mantenere almeno le nostre anime libere dall’occupazione.

Dove avete lavorato insieme prima delle restrizioni dovute al Covid-19? E come siete riusciti a continuare il vostro lavoro con le restrizioni?
Fino all’inizio del 2020 e per i cinque anni precedenti, lavoravamo a Londra. Stranamente, anche prima di Covid-19 la band aveva deciso che non era più necessario stare nella stessa città, dato che potevamo sempre lavorare online e incontrarci nei tour. La pandemia ha anticipato il nostro piano, costringendoci a concentrarci più sullo scrivere che sull’andare in giro, ma essendo una band itinerante con un forte stile dal vivo misto alla danza, l’andare in tour ci manca e abbiamo bisogno di poterlo fare di nuovo. I musicisti sono tra le persone che la passano peggio in quarantena. E un’intera estate senza tour è una grande sorpresa.

La musica permette la comunicazione al di là dei confini. Questa è la ragione, credo, per cui i giovani, come quelli che ho incontrato diverse volte a Gaza, la amano così tanto. Qual è il messaggio che volete trasmettere ai giovani nella regione e in tutto il mondo?
Il nostro messaggio ai giovani, in ogni luogo, è lo stesso: la nostra storia come Palestinesi è il riflesso di molte idee, filosofie, politiche, versioni diverse della storia. È quasi come una storia antica che si ripete, e accade adesso. È la storia in cui siamo nati. Certo, siamo sotto l’occupazione militare di una forza mondiale enorme e influente ma questo non è tutto. Se vogliamo essere liberi la conoscenza è la nostra arma e la conoscenza la si può trovare in viaggi di diverso tipo; perfino nella danza e nel canto, da qualche parte nel tuo percorso troverai più risposte. La musica ShamStep è musica dance di Bilad Al Sham, ma per noi è la colonna sonora della breve vita vissuta da Basel al-Araj, uno scrittore e attivista della nostra generazione: quasi tutti noi eravamo suoi amici o avevamo amici comuni su Facebook. Basel incoraggiava la conoscenza e la ricerca. Anche lui come giovane palestinese si è interrogato sulle basi della libertà per il proprio popolo e per l’umanità. Può essere questa la ragione per cui le forze occupanti israeliane lo hanno ucciso (nel 2017 ndr). Ed è anche il motivo per cui la sua memoria fa paura alla leadership araba: scuote la loro moralità, in quanto sono coloro che hanno contribuito all’ignoranza, sostenuta dall’impianto coloniale occidentale delle terre in cui si parla arabo. Perché devi sollevare questioni così profonde!

La resistenza anticoloniale e/o la resilienza dei popoli nei vostri rispettivi Paesi fanno parte del vostro lavoro. Considerate la musica tradizionale palestinese e irachena la radice della vostra?
Dal punto di vista musicale e sonoro, sì, usiamo ritmi di Bilad Al Sham come la base principale del pomodoro per la nostra pizza, ma sopra ci mettiamo cose diverse. C’è molta musica africana, una vibrazione africana naturale, perché crediamo che lì ci sia una antica connessione di ritmo e canto e perché la sola via per andare dall’Asia occidentale all’Africa è passare per Gaza in Palestina. Per quanto riguarda i temi che scegliamo, penso che le nostre canzoni, come altre del passato nella regione Sham, parlino organicamente del dolore di essere un popolo colonizzato, privato del diritto di scegliere il proprio destino. Questo non significa solo giocare a colpevolizzare le potenze occidentali o soprattutto l’alleanza sionista-americana che influenza pesantemente l’Europa. C’è anche una grande responsabilità della leadership araba nell’assassinio di una certa filosofia islamica inclusiva che avrebbe almeno reso la divisione molto più difficile. Sappiamo tutti che “divide et impera” sono i migliori amici di un colonizzatore. Anche il nostro marxismo è sionista, almeno nei risultati…

Sia in Iraq che in Palestina, in tutta la regione Bilad al Sham, ci sono aree dove violenza e conflitto si verificano quotidianamente. Pensate che la musica possa contribuire a recuperare pace e giustizia?
Sì, naturalmente. Per fare un esempio: nella festa ufficiale per la liberazione della Palestina… quando tutti i rifugiati torneranno in un unico Stato e dopo la redistribuzione della ricchezza, possiamo ottenere due speaker e un piccolo mixer e prenotare una band!

Il vostro nuovo disco, in uscita il 21 agosto, si chiama Semitics. Perché? Oggi l’accusa di antisemitismo è spesso mossa contro attivisti (perfino in Israele) impegnati nella solidarietà con la Palestina. C’è in qualche modo, nel vostro disco, l’intenzione di opporsi a questo tipo di accuse?
Sì. L’hai capito e speriamo che sia chiaro a tutti. Siamo semiti, e non è una razza! Parliamo lingue semitiche, legate a una filosofia abramitica unitaria, che puoi anche chiamare filosofia greco-semitica, e gli arabi ne sono molto coinvolti, specialmente durante i tempi del Califfato Abasside nel XIII e XIV secolo. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo che ai giovani palestinesi oggi spetta la responsabilità di parlare attraverso una filosofia alta perché è usando filosofie “superiori”che ogni giorno viene rubata la nostra terra per la quale i giovani muoiono e vanno in prigione quotidianamente, per difendere cioè un bisogno fondamentale.

L’intervista di Alessandra Mecozzi è stata pubblicata su Left del 7 agosto 2020

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