«Mi irrito quando lo devo chiamare marito, devo cucinare per i suoi amici, e di notte prego che non venga nella mia stanza». Amina (nome di fantasia) è una ragazza quattordicenne camerunense. Ad aprile è stata costretta a sposare un uomo di 47 anni. «Ero considerata un peso da mio padre, voleva che me ne andassi di casa il prima possibile. Per lui è il matrimonio la via verso il paradiso, non l’educazione». Inna (anche il suo nome è di fantasia) ha 16 anni ed è stata costretta a sposare un uomo di 55. Per Amina e Inna la scuola è definitivamente e ex abrupto scomparsa dalle loro vite. Una situazione che condividono con decine di migliaia di coetanee che vivono in diversi Paesi dell’Africa subsahariana, e che a causa della pandemia è ancora peggiorata specie per quanto riguarda l’abbandono scolastico o l’impossibilità di frequentare la scuola. È quel che emerge dall’ultimo report congiunto Oms-Unicef secondo il quale al 20 agosto solamente in sei Paesi subsahariani sono ricominciate le attività scolastiche a tempo pieno e meno di un terzo ripartiranno a settembre. Nella medesima regione, il Center for global development, con l’aiuto di 50 organizzazioni umanitarie locali, aveva calcolato ad aprile che il 78% delle minorenni era a rischio di violenza, mentre per il 49% c’era la prospettiva di essere obbligate al matrimonio con adulti. Stando alle attiviste di Amfed, un’organizzazione fondata da ragazze africane provenienti da Paesi poveri che hanno avuto difficoltà di accesso agli studi, il sillogismo è semplice: «Le scuole non riapriranno, quindi le ragazze (di cui solamente l’8% finisce il liceo, ndr), sono obbligate a sposarsi». «In questi momenti difficili – raccontano a Left – non possiamo permetterci di distrarci neanche un secondo». Il nostro obiettivo è di salvare le vite dei bambini». Anche nell’Africa centro-occidentale, regione più sviluppata secondo gli standard europei, le ragazze che sanno leggere dopo i 15 anni sono il 60% (contro il 73% dei ragazzi) e, in caso di crisi, sono sacrificate dalle famiglie per favorire i figli maschi.
Il rischio di un incremento della violenza di genere durante periodi di crisi trova riscontro nell’attuale pandemia. I dati non sono ancora disponibili, e non lo saranno per molto tempo. Per ovvie ragioni, la raccolta di questo genere di informazioni non è semplice, né veritiera in molti casi. Tuttavia, nella regione subsahariana c’è un precedente, la crisi di Ebola scoppiata nel 2015. Qui i dati ci sono, e non sono confortanti. Secondo la piattaforma “girlsnotbrides”, in Sierra Leone il 39% delle ragazze si sposa prima dei 18 anni, e nel medesimo paese, uno dei più colpiti dal suddetto virus, si stima che in seguito al coronavirus venti milioni di ragazze saranno esclusi dal sistema dell’istruzione, per sempre. Cinque anni fa vennero chiuse 100.000 scuole, e al momento della riapertura alle ragazze incinte – che avevano registrato un incremento del 65% – era stato precluso il rientro. Anche In Liberia, la percentuale di ragazze che non frequentavano la scuola è triplicata (dall’8 al 24%) nei mesi successivi all’Ebola. Il nesso tra impossibilità di andare a scuola e violenza di genere è del resto tragico. In Kenya, le scuole non riapriranno prima di gennaio 2021, e già a luglio il governo aveva avviato un’inchiesta per un aumento di casi di violenza di genere- una helpline a giugno ha ricevuto 1.108 chiamate, a fronte delle 86 a febbraio.
Spostiamo la lente su un altro continente, l’Asia, e anche qui la situazione non è rassicurante. In India, dove il Covid-19 ha avuto effetti devastanti, non è stata ancora stabilita una data precisa per la ripresa delle attività scolastiche. Nel paese guidato da Nerendra Mori, il 95% dei lavoratori appartiene all’economia informale (tradotto nessun accesso a protezione legale o sociale), e in molte aree – nella regione del Punjab stanno morendo tra le tre e le quattro persone al giorno -, la scuola è probabilmente l’ultimo dei problemi. Un sondaggio condotto su 24.000 ragazze tra i 15 e 19 anni in otto Paesi con reddito basso in Asia meridionale e Africa, ha svelato che il 49% rischia di interrompere definitivamente la carriera scolastica: proprio in India, 4.942 ragazze hanno affermato di essere cadute in povertà a causa del coronavirus, in Bangladesh 1.769 e in Nepal 1.568. In quest’ultimo paese, un’inchiesta condotta dall’organizzazione “Sisters & Sisters” ha svelato che all’89% delle ragazze intervistate in aree rurali, durante il lockdown era stato imposto di svolgere lavori domestici, a 11 su 152 di sposarsi. Per loro andare in aula era l’unico modo per evitare questo destino. «Molte famiglie hanno perso le parve forme di ricavo che gli permettevano di stare a galla» dice Ananda Paudel, responsabile del progetto Sisters & Sisters in Nepal. «La ripercussione di questo timore si scarica molto spesso sulle giovani donne».
Su Left abbiamo evidenziato a più riprese come l’isolamento abbia acuito diseguaglianze e messo a rischio le fasce meno tutelate della società: emarginati, immigrati, precari, donne e bambini. L’unica soluzione per tutelare le ultime due categorie, stante la sopracitata difficoltà nel raccogliere dati e dichiarazioni e l’assenza di uno strumento efficace di prevenzione della violenza, consiste probabilmente nella scuola. Ci possiamo allora rifare all’immagine del diritto alla salute messo sul piatto della bilancia dai vari governi nei momenti di difficoltà. Sull’altro piatto si alternano il diritto al lavoro, alla sicurezza e, come in questo caso, all’istruzione. Uno studio del World economic forum ritiene la chiusura delle scuole fino a gennaio 2021 la migliore politica da seguire in particolare per i Paesi a low income, al netto delle ripercussioni che ciò comporta per le ragazze. L’Unicef è di un altro avviso. «Se ponderiamo il danno che i bambini subiscono rimanendo fuori dalla scuola – dice Mohamed Malick M. Fall, direttrice regionale dell’Africa del sud-est – e seguiamo l’evidenza, non c’è dubbio che questi devono tornare in aula il più presto possibile».
Dichiarazione che implica una concezione della scuola non solo come luogo di apprendimento, ma come momento di incontro in cui si appianano le diseguaglianze, come opportunità di socializzare e condividere le proprie esperienze. Ecco, la scuola intesa in questo modo, per le ragazze provenienti da paesi poveri e entrati ancora più in crisi in seguito alla pandemia, rappresenta non un solo un medium per ottenere un lavoro redditizio, ma, in primo luogo, una meta da raggiungere. Superando ostacoli, pregiudizi e diseguaglianze, e oggi anche una pandemia.