La legge su cui dovremo pronunciarci il 20 e 21 settembre potrebbe stravolgere la nostra forma di governo parlamentare che vuole il presidente della Repubblica un organo super partes, chiamato a garantire la Costituzione

L’avversione degli italiani per il Parlamento non è un fatto nuovo.
Già al tempo del dibattito per l’elaborazione della Costituzione il Costituente Giovanni Conti si rivolgeva ai colleghi evidenziando come: «Il popolo italiano disgraziatamente ha una sola abitudine circa il Parlamento: parlarne male».
Con queste parole, il tentativo era quello di convincere l’Assemblea Costituente a diminuire il numero dei componenti rispetto a quello del passato per «elevare il prestigio del Parlamento».
Le Assemblee numerose, si sosteneva, sono «dannose» al Paese giacché meno capaci ad attendere all’opera legislativa che le è demandata. Ma soprattutto, a differenza di una «Assemblea più snella», impongono un «alto costo».

Alla fine della seconda guerra mondiale con un Paese stremato e alla fame, da ricostruire, quest’ultimo argomento poteva risultare decisivo. Eppure non fu così.
Con dignità si criticò una simile argomentazione e, con questa, la volontà di considerare come un problema la diminuzione del numero dei componenti, problema che «non si sarebbe nemmeno dovuto porre» a fronte dell’esigenza di adeguare il numero dei suoi rappresentanti alla aumentata massa della popolazione.

Con umiltà e amarezza il presidente della Commissione per la Costituzione, il deputato Meuccio Ruini, riconoscendo che il loro lavoro, la loro Costituzione era «tutt’altro che perfetta», mostrandosi «piena di difetti», affermava anche risoluto che «sarebbe ora di smettere l’abitudine italiana di dir male di noi stessi» e tra applausi e condivisione dell’Assemblea costituente, osservando che molti studiosi stranieri guardavano con grande attenzione al loro lavoro, finiva con l’evidenziare come la loro Costituzione «malgrado le sue pecche» – e, direi, lo spirito fortemente critico che caratterizza il nostro popolo – si riveli alla fine «una cosa seria, non indegna del popolo italiano».

L’idea che il numero dei componenti un’assemblea dovesse essere «in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale» riuscì così in ultimo a prevalere, trovandosi poco convincente l’idea che la diminuzione del numero dei componenti potesse portare maggiori vantaggi. La rappresentanza in adeguata proporzione alla popolazione fu ritenuto interesse “preminente” anche rispetto a un quadro economico tutt’altro che roseo. La riduzione del numero dei componenti parlamentare e con essa della rappresentanza di quel popolo che pure si voleva e si volle, all’art. 1 della Costituzione, «sovrano» fu inteso come un «atteggiamento antidemocratico»: venendo fuori da sistemi autoritari, si era ben consapevoli che «quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni» (Umberto Terracini).

Negli ultimi anni si è andato tuttavia riproponendo lo stesso dibattuto problema, rimettendosi in discussione la “grandezza” dell’organo parlamentare.
È tornata così con vigore quell’argomentazione del costo pure vista con sospetto dai nostri Padri Costituenti e con sorprendente celerità, nel giro di pochi mesi, si è approvata la legge costituzionale di modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari con il conseguente passaggio da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. La finalità tuttavia non appare qui quella di aumentarne il prestigio, né di snellirne il lavoro, quanto piuttosto, a leggere le motivazioni espresse nella relazione illustrativa della proposta di legge, di risparmiare i costi della politica.
La votazione conseguita non già con una forte maggioranza (dei due terzi dei suoi componenti) ha consentito, per fortuna aggiungerei, di attivare il secondo step: la chiamata al popolo mediante referendum.

Non trattandosi di adottare una legge qualsiasi per la quale è sufficiente una maggioranza semplice, ma di “mettere mano” al patto costituzionale del popolo italiano, i nostri costituenti vollero “rafforzare” le garanzie a tutela del nostro sistema costituzionale democratico, faticosamente ideato (per ben due anni!), grazie alla previsione di tempi lunghi e vari passaggi che si è tradotta in una procedura aggravata, vale a dire: doppia votazione delle due Camere, a distanza non inferiore ai tre mesi, così da voler chiaramente “rallentare” il processo di revisione e agevolare un confronto più attento. Ma soprattutto si prevede una maggioranza “rafforzata”, a conferma di una volontà che deve essere forte dei rappresentanti del popolo, volontà che se non raggiunta può vedere, se attivato, l’intervento del popolo da sentire direttamente. Una procedura “voluta” più complessa dai nostri Costituenti giacché, secondo le parole pronunciate con commozione dal Costituente Umberto Terracini, a Costituzione appena approvata il 22 dicembre 1947, si tratta di apportare modifiche, in questo caso direi molto importante per una democrazia, al «solenne patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore».

Così, come si diceva, in assenza di una forte volontà dei nostri rappresentanti, siamo noi chiamati il 20 e 21 settembre a decidere sulla riforma della costituzione nella parte in cui si vuole il “dimagrimento” dell’organo parlamentare. Dobbiamo tuttavia farlo, quali “custodi” con “severità” – ci chiedono i nostri Padri costituenti – e quindi con cognizione di causa.
Si tratta allora di valutare le ragioni che possano legittimare una modifica così rilevante oltre quelle di economia di spesa, ragioni certamente perseguibili anche in altro modo come ad esempio eliminando la diaria giornaliera per i deputati e i rimborsi spese per i senatori.
In un mondo dove il confronto con gli altri è sempre più stimolato, anche quando si guarda alla gestione emergenziale sanitaria da Covid, si può partire innanzitutto, quanto al dato numerico, dalla comparazione con altri Paesi.

In Europa l’Italia si presentava come il Paese, dopo il Regno Unito (con i suoi circa 1.432 parlamentari di cui solo 650 eletti democraticamente), con il maggior numero di parlamentari (ben 945 e senza contare i senatori a vita!) seguiti subito dopo dalla Francia (925) e dalla Germania (778, numero comprensivo anche dei componenti del Bundesrat, non proprio seconda Camera, difficilmente paragonabile al nostro Senato). Un numero particolarmente elevato considerato che l’Italia rispetto a Francia e Germania è il Paese meno popoloso.
Il taglio dei parlamentari sotto il profilo meramente numerico, può apparire allora corretto.
Sembra tuttavia forse eccessiva la riduzione di ben un terzo, soprattutto se si ponga attenzione al profilo del rapporto parlamentare/abitante.

Un primo punto da considerare è proprio allora la questione della proporzione fra abitanti ed eletti.
Se il numero dei rappresentanti prima della riforma si mostrava particolarmente alto, oggi è drasticamente peggiorato e con esso anche la proporzionale rappresentativa della popolazione: su una popolazione di circa 60 milioni di persone, al rapporto presente sino all’attuale riforma di un parlamentare ogni 63mila abitanti si sostituisce quello di ben un parlamentare ogni 100mila abitanti circa.
Eppure, prima della modifica avvenuta nel 1963, i nostri costituenti, preoccupati di garantire la rappresentanza e le minoranze, optarono per «un Deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila» e «un senatore ogni 200mila abitanti», ritenendosi poco opportuno, «in un regime democratico», la diminuzione del numero dei rappresentanti «perché a tutti deve esser dato il modo di far sentire la loro voce» laddove la restrizione di tale numero avrebbe potuto «far sorgere il sospetto di essere animati dal proposito di soffocare la volontà delle minoranze» (Vincenzo La Rocca).

Appare evidente quindi come sotto il profilo della proporzione e della rappresentanza avremmo una deminutio.
Altro aspetto che si può allora tenere in conto è quello legato all’efficienza legislativa che ne potrebbe uscire migliorata.
L’assemblea, dovendo fare i conti con un numero decisamente inferiore di componenti, potrebbe riuscire a svolgere più agevolmente la funzione legislativa che pure le spetta, non dovendosi così più ricorrere alla decretazione di urgenza – anche quando non strettamente “necessario” – e a discutibili questioni di fiducia, prassi consolidata in Italia ma in qualche modo in contraddizione con il dettato costituzionale (di cui all’art. 94, Cost. comma 4).
Tuttavia questo profilo della tecnica legislativa non sembra direttamente considerato e disciplinato dalla riforma che si limita invece a preoccuparsi della composizione e non già delle funzioni. L’efficienza legislativa non può essere considerata nemmeno conseguenza naturale della riduzione. Rendere più “snello” il Parlamento non vuol dire affatto “automatica” rinuncia a strumenti o metodi distorsivi. 
La riduzione del numero dei parlamentari può invece riguardare direttamente il rapporto tra organi costituzionali e il loro funzionamento.

La riforma costituzionale avrà infatti conseguenze inevitabili importanti soprattutto quanto alla nostra forma di governo parlamentare che vuole il presidente della Repubblica un organo super partes, chiamato a garantire la Costituzione e capace di mantenere gli equilibri in quanto non già espressione di alcuna forza politica.
Camera e Senato sono chiamati a riunirsi in seduta comune in molte occasioni importanti per il nostro ordinamento. Tra queste appunto la nomina del presidente della Repubblica ma soprattutto la sua eventuale messa in stato di accusa, pure disciplinato all’art. 90 della nostra Costituzione. In quest’ultimo caso, essendo sufficiente la maggioranza assoluta dei membri delle due Camere, basterà oggi, a riforma approvata, avere il parere favorevole di solo 301 parlamentari (in luogo dei precedenti 476), per farne affermare la responsabilità giuridica con successiva fase giurisdizionale innanzi alla Corte costituzionale. Non sembra così difficile che si possa consolidare una maggioranza che finisca con il porre il presidente della Repubblica in gravi condizioni di inferiorità, rispetto al presidente del Consiglio, gettandolo in uno stato di “perenne ricatto”.

Tutto questo e lo stravolgimento che ne deriva sarà peraltro matematicamente certo nel caso di adozione di una legge elettorale di tipo maggioritario che, per sua stessa logica, tende a favorire la formazione di una forte maggioranza certamente a vantaggio della “governabilità” ma a discapito della minoranza e quindi della pluralità.
Con un presidente espressione di una precisa maggioranza e non proprio del pluralismo politico, prigioniero di quella stessa maggioranza che finisce con il porlo sotto eterno scacco, ne risulterebbe vulnerata la stessa idea del presidente quale rappresentante “dell’unità nazionale” (art. 87 Cost.) nonché lesa la rappresentanza, quanto ai parlamentari, della “intera nazione” (art. 67 Cost.). È d’altronde proprio quest’ultimo aspetto – e non già la “governabilità” (termine mai utilizzato nella carta costituzionale e che tende a mortificare la qualità del confronto democratico) – chiaramente reclamato dai Costituenti, volendosi, per dirla con parole di Costantino Mortati, «sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari», con la conseguenza che esso «non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme».

In questo quadro modificato si mostrerà perciò, per altro verso, più che auspicabile una legge elettorale proporzionale integrale se si vuole mantenere l’importanza dell’organo rappresentativo e la centralità del presidente della Repubblica, guardiano e garante della Costituzione, evitandosi, al contempo, di stravolgere la nostra forma di governo.
La vera insidia, in questo mutato assetto, sarà data quindi dalla combinazione della legge elettorale di tipo maggioritario ed eventuale stato di “condizionamento” del presidente della Repubblica.

Si dirà allora che i tempi sono cambiati, che la velocità nell’assunzione delle decisioni impone organi e procedure più efficaci e snelle. Questo può essere pure un altro argomento.
Ma se si rinuncia alla “rappresentanza” o comunque a una maggiore rappresentanza, per cui pure tante lotte sono state fatte in passato, allora perché non sostituire anche i pochi con uno?
C’è poi anche da chiedersi: se siamo al punto di oggi, con un sistema economico (per la verità non solo italiano) che vede sempre meno tutele e garanzie per i lavoratori, ponendoli in ginocchio, è proprio colpa di quei “tanti” presenti nel Parlamento, del pluralismo politico, o forse è vero proprio il contrario?

Svuotato di effettivi poteri decisionali, attraverso vari meccanismi che non hanno consentito una vera opposizione – quali questioni di fiducia, leggi elettorali che alterano la rappresentanza favorendo la “nomina” da parte dei partiti piuttosto che la “elezione” dei parlamentari – mi sembra che il Parlamento sia stato già sinora nelle mani di “pochi” che hanno assunto le decisioni che scontiamo oggi.
 Forse allora piuttosto che ai “numeri”, o almeno oltre a questi, sarebbe opportuno porre particolare attenzione proprio a questi meccanismi così che insieme a una rappresentanza “giusta” – intesa come equilibrata numericamente – e “buona” – considerata come qualità della preparazione della classe politica – si possa finalmente consentire anche un effettivo ed efficace funzionamento dell’organo rappresentativo.
 Forse i tempi sono finalmente maturi per avanzare verso una democrazia di “qualità” e, con questa, verso una vita di qualità della stessa comunità italiana.

Professoressa associata di Diritto pubblico, Università degli studi di Napoli, l’Orientale

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