«Gli attivisti Black lives matter non sono coinvolti nella tornata elettorale ma hanno comunque condizionato l'agenda dei due sfidanti per la Casa Bianca» racconta lo scrittore e giornalista Gary Younge. «E ora - prosegue - il "peso della pandemia da Covid alza la posta in gioco delle proteste democratiche globali»

Non molti hanno saputo raccontare la violenza che dilaga nelle strade degli States a danno in particolare delle minoranze etniche come ha fatto Gary Younge. Giornalista e scrittore britannico, per lunghi anni è stato corrispondente per il Guardian dall’altra sponda dell’Oceano. Nel suo libro inchiesta Un altro giorno di morte in America (Add editore, 2018), molto citato in questi mesi, sceglie un giorno qualsiasi descrivendo le storie dei dieci ragazzi uccisi in quelle 24 ore negli Stati Uniti con un colpo di arma da fuoco. Partendo dalla consapevolezza che quotidianamente perdono la vita in questo modo sette giovani, perlopiù maschi, neri, di alcune città particolarmente pericolose. Vittime di una società dove discriminazioni razziali e sociali si intrecciano fino a confondere i loro contorni. Con lui facciamo il punto sulle spinte popolari per superare le disuguaglianze strutturali tra bianchi e neri che, a partire dagli Usa, si sono moltiplicate nel mondo.

Il movimento Black lives matter (Blm), nato durante la presidenza Obama, è esploso dopo l’uccisione di George Floyd. Quali sono le sue novità rispetto ai precedenti movimenti per i diritti civili? Quali le prospettive future? Pensi che riuscirà davvero a cambiare radicalmente le politiche razziste anche senza leader e senza “scendere in politica”?
Le rivolte attuali sono più simili alle ribellioni della fine degli anni Sessanta in città come Detroit, Newark, Chicago e Dc che al movimento per i diritti civili. Ma una differenza fondamentale tra allora e oggi è che il movimento Black lives matter si è diffuso nell’intero Paese. Abbiamo visto episodi di resistenza nelle piccole città, nelle aree rurali e nelle periferie. Riesce molto più facilmente a proliferare a causa dei social media, ma ha molta più difficoltà a strutturarsi. In realtà somiglia più ad una rete che ad un movimento. È impossibile prevedere le sue prospettive future in questo momento. In se stesse e considerate singolarmente le proteste non porteranno a nulla di concreto – raramente accade e certo non accadde durante il movimento per i diritti civili. Ma hanno aumentato la consapevolezza e la sensibilità culturale e galvanizzato grandi gruppi di persone, ponendo così le basi per un cambiamento concreto. Gli attivisti Blm non partecipano alle elezioni ma fanno comunque politica. La politica è molto più delle sole elezioni. Essi sono riusciti comunque a spostare, senza dubbio, l’agenda dei politici tradizionali. Inoltre, proprio le stesse domande furono poste a Martin Luther King. Kennedy gli disse che la marcia su Washington era «uno spettacolo sulla collina» mentre ciò che era veramente necessario era modificare la legislazione. Ma la realtà è che le leggi non sarebbero state cambiate nel modo in cui lo furono, senza le manifestazioni. Nelle parole dell’abolizionista del XIX secolo, Frederick Douglass: «Il potere non concede nulla senza una richiesta. Non lo ha mai fatto e mai lo farà»

Il movimento Blm pone l’accento sulle discriminazioni basate sulla razza. Ma il razzismo si lega al neoliberismo. Si dovrebbero dunque sottolineare di più le discriminazioni legate alla classe, oppure in questa fase è importante che il movimento riceva l’approvazione di una fascia di borghesia ricca che però non accetta le politiche di Trump?
Il razzismo si lega al neoliberismo, perché questo neoliberismo è il sistema in cui ci muoviamo. Ma ovviamente precede il neoliberismo. È sopravvissuto a forme di società agraria (schiavitù), fordismo e forme di capitalismo più “addomesticate”, nonché a stalinismo e maoismo. Quindi il neoliberismo non è una precondizione per il razzismo, ne descrive solo l’attuale contesto. Cercare di cogliere le questioni della “razza” o della “classe” in modo separato significa fraintenderle completamente. Certamente sono soprattutto gli afroamericani della classe operaia ad a subire le conseguenze più tragiche delle violenze poliziesche. Ma tale violenza non viene inflitta ai bianchi poveri nella stessa proporzione o nello stesso modo. Quindi chiamare il fenomeno con il suo nome, “razzismo”, non ha nulla a che fare con la ricerca dell’approvazione di una middle class benestante che però non accetta le politiche di Trump. Si tratta di chiamarlo per quello che è in un Paese che fu uno Stato schiavista per più di duecento anni, uno Stato dove si è praticato l’apartheid per cento anni ed è una democrazia non razzista da soli sessant’anni circa. E chiaramente, se l’obiettivo fosse cercare l’approvazione dei ricchi bianchi, nessuno si ribellerebbe.

Hai scritto e documentato che il Covid ha accentuato le disuguaglianze razziali. In che modo è successo?
Dunque, il razzismo è una condizione preesistente. Così come l’oppressione di classe. C’erano prima del Covid-19. Così, quando è arrivata la pandemia, ha colpito in particolare chi vive in spazi sovraffollati, chi non si può permettere di non andare al lavoro, chi è tagliato fuori dall’assistenza sanitaria, chi aveva comunque una salute peggiore, chi si è trovato ad operare in settori come la guida dei taxi, i trasporti pubblici, la sicurezza, la sanità e così via. Si tratta di persone in maggior parte povere e poiché i neri e le minoranze etniche sono rappresentati in modo…

L’intervista prosegue su Left 

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