Nella scia delle decisioni scoppiettanti del presidente della Regione campana, il di lui collega pugliese, ha deciso di non essere da meno, chiudendo – ad esclusione di quelle d’infanzia – tutte le scuole da Foggia a Lecce passando per le altre province. La Sacra Corona Unita ringrazia. Nuove braccia da reclutare da Bari in su e in giù per la lunga, lunghissima Puglia. Un ricordo personale mi porta a una vacanza siciliana di una quarantina di anni fa, in cui un questore mi diceva: «Il mafioso teme più la scuola della polizia». Un problema, quello della scuola chiusa in quelle zone d’Italia già in sofferenza sotto diversi altri aspetti, che si aggiungerà a quelli che già affliggono famiglie che risultano invisibili allo Stato, nel senso che attraversano tutta una vita nella traccia del lavoro illegale: in nero.
Una moltitudine di lavoratori nei più svariati settori, che l’Istat quantifica in quasi quattro milioni. Il valore relativo ai danni nei confronti dell’erario è di quasi 80 miliardi, a fronte dei 192 complessivi dell’economia sommersa. La ricaduta sul prodotto interno lordo è del 4,5%. Va tuttavia precisato che l’Istituto di statistica non censisce i singoli lavoratori irregolari, ma le Ula (Unità di lavoro a tempo pieno), ciascuna delle quali vale ben di più di un lavoratore: se due persone lavorano mezza giornata in nero, valgono per ognuna una sola unità di lavoro a tempo pieno. In realtà sarebbero però due i soggetti da conteggiare come lavoratori in nero. Sempre l’Istat ci informa che nel 2019 l’incidenza del lavoro irregolare ha superato il 15%, con punte che hanno superano il 60% nel caso del lavoro domestico.
A questo esercito di invisibili – stando alle parole della ministra del Lavoro – potrebbe/dovrebbe essere esteso il reddito di emergenza per far fronte al lavoro (in nero) perso a seguito della pandemia. Stiamo parlando di camerieri, parcheggiatori, autisti, trasportatori e quant’altro che si sono trovati in questo a.d. (anno diabolicus, altro che domini) senza nemmeno un euro su cui contare a causa della chiusura di molti esercizi o della falcidiazione del personale di moltissimi altri. In loro aiuto, come prevedibile, sono corse le varie mafie che tentacolano il Sud. Le stesse organizzazioni criminali che hanno fatto incetta di attività al mercato della disperazione. Il lockdown più sciagurato – quello delle scuole – è un ulteriore regalo alle associazioni malavitose che grazie a quei battenti chiusi avranno modo di infoltire le loro schiere oltre a formare nuovi “quadri” delinquenziali. Sarà insomma la famosa e famigerata «scuola della strada» di cui c’è assai poco da vantarsi, a formare un numero non indifferente di italiani che non saranno mai (o quasi mai) cittadini, cioè soggetti di uno Stato moderno e totalmente affrancato dalla piaga delle associazioni a delinquere. Con la prostituzione, la droga e quant’altro da cui malavitosamente le mafie traggono profitto, una delle voci più importanti è proprio quella che fa riferimento al mondo del lavoro. Un mondo di cui fanno scempio, dominandolo direttamente o indirettamente.
Su quasi 160mila ispezioni effettuate lo scorso anno, è emerso un indice di irregolarità del 68% relativamente alle pratiche di vigilanza sul lavoro, dell’81% della pratiche d’ambito previdenziale, dell’89% di quelle assicurative. Il tutto a fronte di oltre 356mila lavoratori irregolari dei quali quasi 42mila totalmente sconosciuti al fisco, con un incremento di mille unità rispetto all’anno precedente e con un trend che per il 2020 si preannuncia oltremodo superiore proprio a causa della pandemia. Dal fondo del barile del gran calderone dell’evasione italiana, lo scorso anno sono stati recuperati 1,23 miliardi di euro: vox clamantis in deserto, insomma. Nella lotta al caporalato (che coinvolge edilizia, ristorazione, industria manifatturiera oltre alla primatista agricoltura) nel 2019 sono state 570 le persone denunciate, di cui 154 arrestate, con un incremento del 50% rispetto al 2018. Il reddito di cittadinanza non dovuto è stato smascherato in 599 casi, con un coinvolgimento non da poco di aziende che frodavano lo Stato in accordo con il lavoratore, che veniva appunto pagato in nero: 61% i casi individuati dall’Ispettorato a Napoli, 26% a Roma, 7% a Venezia, 6% a Milano.
Un pallottoliere desolante che mette a nudo uno Stato che, imbrigliato in genesi e palingenesi capitalistiche, non riesce (perché strutturalmente impossibilitato, ahimé) a fare del welfare una parola che abbia un senso coerente con la modernità da iPhone, ma che invece “tollera” che riders corrano per decine di km al giorno anche a 50 anni, per portare a casa 30 euro. Numeri che sono “naturale” conseguenza di una fiscalità incapace (per precisa volontà e struttura) di stendere tutta la popolazione su un ideale, giusto, corretto letto di Procuste di stampo fiscale. Mai come in questo momento c’è necessità di mettere mano alla ridistribuzione della ricchezza e alla fiscalità, perché la sofferenza che sta emergendo in un Paese pandemicamente collassato sia sul piano economico che sanitario, non può essere cauterizzata con panacee estemporanee, ma con un piano, un progetto che metta al centro un vero welfare, non una sua parodia. La modernità, la civiltà di un Paese non passa esclusivamente per lo sviluppo (essenzialmente tecnologico), ma necessariamente per il progresso (necessariamente umano) ché sennò la Corea del Nord di Kim il bimbominkia sarebbe automaticamente più civile della Firenze di Lorenzo de Medici (mutatis mutandis, ovviamente).