Le industrie estrattive nella regione andina sono in mano a imprese transnazionali. Un affare da miliardi di dollari di cui in nessun modo beneficiano le popolazioni locali. Che anzi subiscono le conseguenze dell’inquinamento acustico e ambientale divenuto insostenibile

Una lunga coda di 200 camion ogni giorno attraversa il corridoio andino peruviano che parte da Cotabambas, nella regione di Apurimac, transita dalle province di Chumbivilcas e Espinar nella regione di Cusco e arriva sulla costa, al porto di Matarani. Una lunga ferita del territorio peruviano che connette la più grande zona mineraria del Paese dove si trovano le enormi zone estrattive di Las Bambas e di Antapaccay. Le imprese transnazionali Glencore, svizzera, e Mmg (Minerals and metals group), per il 75% di proprietà cinese, qui estraggono rame. Molto rame. Circa il 20% della produzione nazionale, per un giro di investimenti che si stima raggiungerà 20mila milioni di dollari nel 2021. Cifre da capogiro di cui la popolazione locale non beneficia in alcun modo, anzi. «L’aria è irrespirabile, il rumore, l’inquinamento acustico e ambientale è insostenibile – dice Benenacia Valencia Jara, leader indigena che vive da sempre a Velille, provincia di Chumbivilcas -. Questo è sempre stato un distretto agricolo, ma con l’arrivo della miniera, tutto è cambiato, non possiamo coltivare più niente. Il terreno si è inaridito, le fonti d’acqua sparite o inquinate».

Le comunità che abitano questi territori sono solo dei dettagli, dei piccoli ostacoli da spostare – letteralmente – per mandare avanti gli enormi interessi che queste compagnie straniere muovono ogni giorno con la complicità dello Stato che nell’ultimo anno ha visto aumentare il Pil del 7%: nel 2018 il 48% del territorio della regione di Apurimac e il 14,8 % della regione di Cusco erano dati in concessione per attività estrattive. Ovvero in usufrutto quasi gratuito a imprese transnazionali, con tasse bassissime e possibilità di disporre di quelle terre e delle persone che lo abitano in modo indiscriminato, grazie anche alla militarizzazione delle zone e la repressione del dissenso. «Le nostre terre sono inquinate, i nostri animali muoiono, le persone si ammalano e lo Stato cosa fa? Non ci difende. Permette che ci avvelenino. Fa leggi in favore delle imprese. Ci fa arrestare se protestiamo o se chiediamo di essere informati e partecipare alla gestione delle risorse. Ora – conclude Benenacia – è il momento di prendersi delle responsabilità». Le istituzioni statali in effetti potrebbero avere gli strumenti per regolamentare e per arginare questo continuo e sempre più violento sfruttamento delle risorse naturali da parte di imprese straniere, e anche per riparare alle tante violazioni dei diritti umani messe in atto. Dal 2011 l’Onu ha infatti emanato i…

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Aguas para los pueblos è l’iniziativa avviata dal 2019 nell’ambito del progetto europeo “Imprese transnazionali e Principi guida, verso meccanismi effettivi per la protezione dei diritti umani in America Latina”, che vede tra i sostenitori Cospe onlus di cui fa parte Pamela Cioni che firma questo articolo. Nello stesso progetto è stato realizzato il rapporto Analisi dell’applicabilità e efficacia de principi guida Onu in Argentina, Brasile, Perù e Colombia da cui sono estratti i dati dell’articolo di Cioni


L’articolo prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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