Quando si affronta il trattamento degli autori di reato affetti da patologia mentale sorge il grande problema di dover mettere insieme la pena con la cura. Ma garantire percorsi terapeutici adeguati (come psicoterapia e progetti riabilitativi) è pressoché impossibile

Il sistema carcerario, realtà già di per sé complessa, è stato messo a dura prova dalla natura “democratica” della pandemia. Il coronavirus infatti non fa distinzioni di reddito, colore della pelle, pena da scontare e non risparmia luoghi usualmente dimenticati o lasciati ai margini della società. L’unica possibilità di rallentarne la diffusione è l’attuazione tempestiva di misure di contenimento che, se da un lato hanno tutelato la vita dei detenuti, dall’altro l’hanno resa molto più difficile a causa dell’interruzione di tutte le attività di gruppo, dei colloqui con familiari e legali, dei permessi premio e dei processi. Le restrizioni proposte, figlie di necessità sanitarie in un’ottica di prevenzione, unite al timore di essere contagiati, sono state l’innesco delle rivolte di marzo scorso in diversi Istituti nazionali.

Significative le parole scritte dai detenuti in una delle lettere inviate a Radio radicale: «Viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e morire qui dentro, perché in queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento… Terrore perché ci sentiamo abbandonati e la nostra incolumità sembra essere lasciata al caso». Fortunatamente, l’adeguamento dei protocolli sanitari per il contenimento della pandemia in concomitanza con la sua evoluzione, ha disteso la tensione e fatto svanire in larga parte quel “terrore” e quello spaesamento iniziale che colpivano non solo i detenuti ma tutti gli operatori in campo.

Un’attenzione particolare è diretta verso i “nuovi giunti” ovvero le persone che iniziano la detenzione; un momento estremamente delicato in cui si crea una frattura tra un “prima” e un “dopo” nella vita di chi ne è coinvolto che può avviare o far precipitare situazioni di vulnerabilità. Per questo motivo è richiesta un’accurata valutazione da parte di diverse figure professionali (lo psicologo, l’educatore, lo psichiatra ed il personale di Polizia penitenziaria) per garantire la presa in carico di persone che sono costrette ad affrontare questo momento di fragilità in completa solitudine a causa dell’isolamento sanitario.

Dall’altra parte i detenuti in cui non si palesa alcuna condizione di “debolezza” o che nel corso della detenzione, magari per buona condotta, meriterebbero una…

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Gli autori: Gli psichiatri e psicoterapeuti Claudia Dario, Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi sono dirigenti medici Uosd Salute mentale penitenziaria e psichiatria forense Asl Roma 2 


L’articolo prosegue su Left dell’18-24 dicembre 2020

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