Il 2020, nella retorica politica di Pechino, è stato un anno di svolta nella realizzazione del cosiddetto “Sogno cinese”. Cioè della tesi elaborata dal presidente Xi Jinping nel 2012 al fine di perseguire l’obiettivo ideale di rinascita economica e culturale del Paese. Sia a livello nazionale che internazionale

Se non fosse stato un anno horribilis, dovremmo dire che il 2020 appena concluso è stato l’anno della Cina. Cinese è stato il primo caso di coronavirus scoperto nella città di Wuhan alla fine del 2019, cinesi sono stati i primi due pazienti in Italia e in generale la Cina ha dominato i mezzi di comunicazione di tutto il mondo per un anno intero, come non era mai accaduto negli ultimi millenni. La Cina è diventata vicina, allora?
Partiamo dai fatti. Al principio dell’anno, anche noi che eravamo appena rientrati da Wuhan a dicembre 2019, avevamo una sensazione di lontananza quando le televisioni diffondevano le notizie dei primi casi di Sars-Cov-2. Guardavamo con diffidenza quei medici vestiti da astronauti e mostravamo meraviglia per la rapida costruzione di un ospedale da campo; poi siamo restati sconcertati dalle misure – per noi allora giudicate folli – di completa segregazione di milioni di persone costrette a restare chiuse in casa. Io stesso, guardavo con sufficienza i miei studenti cinesi, che un giorno comparvero in aula, con una mascherina in volto, come fossero chirurghi in sala operatoria. Poche settimane dopo, i miei studenti italiani erano chiamati a fare da interpreti per i primi due pazienti cinesi, trovati in un albergo romano e ricoverati allo Spallanzani. Rapidamente nelle nostre città si erano diffusi mai sopiti sentimenti razzisti nei confronti dei cinesi, novelli untori. Un pezzo di Cina sembrava essere arrivata da noi e dovevamo contenerla, allontanarla, l’equazione cinesi e Covid-19 ebbe immediatamente buon gioco, perché fondata anche su un dato di realtà epidemiologico.

Improvvisamente, distanziato da un fuso orario lungo due mesi, tutto quello che avevamo visto in televisione, usciva fuori dallo schermo ed entrava nel nostro mondo. Era pandemia: tutto il mondo era come la Cina. Ciascun Paese, seguendo l’inesorabile fuso temporale della diffusione epidemica, adottava misure di contenimento pratiche, o solo ideologiche, come Gran Bretagna e Stati Uniti che, praticando una forma di annullamento della realtà, dichiaravano semplicemente che il virus non esisteva, salvo poi doverne fare le spese in maniera ancora più drammatica di altri. La Cina continuava, frattanto, a seguire i metodi più rigidi immaginabili, fatti di contenimento fisico, tracciamento, abolizione totale di ogni libertà personale e costruzione rapidissima di strutture sanitarie, avviando contemporaneamente una battaglia mediatica senza paragoni, sia a livello interno, come sempre accaduto nella sua millenaria storia, ma soprattutto – e questa e la vera novità – a livello internazionale.

Per la prima volta forse nella sua storia plurisecolare la Cina ha lanciato una campagna mediatica senza paragoni a livello planetario. Prima la politica delle donazioni di quelle mascherine di cui a quel punto avevamo un gran bisogno anche noi, e poi la collaborazione scientifica, con l’invio di delegazioni di medici e specialisti di Wuhan. Accanto a questi gesti concreti di solidarietà, la Cina si è candidata prima a diventare il primo fornitore al mondo di presidi sanitari anti Covid-19 e adesso a produttore di vaccini, spesso sperimentati in Paesi africani. Tuttavia, la campagna principale era quella mediatica, volta a contrastare l’equazione del presidente nordamericano, Covid-19 uguale «virus cinese», uguale attacco della Cina agli Stati Uniti. La lotta contro la pandemia era diventata una guerra commerciale per la supremazia mondiale. Mentre le economie segnavano il passo e le nostre stesse democrazie erano messe a dura prova dalle limitazioni delle libertà individuali e dal crollo delle attività produttive, il modello centralizzato cinese dava tutti i suoi frutti, sia nell’ambito del contenimento dell’epidemia, che dal punto di vista economico. La grandezza geografica della Cina aveva consentito la creazione di zone limitate di contenimento, mentre il resto del Paese proseguiva le proprie attività, cosicché alla fine la produzione nazionale pur avendo avuto un netto rallentamento nel primo trimestre, riusciva a segnare un più complessivamente per l’anno appena concluso. Infatti, la Cina è stata l’unica economia mondiale a segnare uno sviluppo anche nel 2020, il peggiore per le economie occidentali da un secolo.
Se ci fermassimo qui, allora potrebbe essere corretto il ragionamento delle destre, che il “virus cinese” ha portato benefici alla Cina, gettando in depressione tutto il resto del mondo.
Se consultassimo un qualunque motore di ricerca delle nostre parti ci potremmo accorgere che la parola più diffusa in tutto il mondo è stata virus o Coronavirus, nulla di strano. Ma in Cina? No in Cina questa è solo la seconda o la terza. Le prime…

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L’autore: Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e letteratura cinese all’Università “La Sapienza” di Roma


L’articolo prosegue su Left dell’8 gennaio 2021

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