Lo scatenato frontman dei Jethro Tull, Ian Anderson, racconta la sua ricerca musicale iniziata dalle sperimentazioni progressive rock. E parla della difficile situazione vissuta dagli artisti nella pandemia: «Nel Regno Unito si pensa all’economia senza proteggere le persone»

Thick as a brick, Minstrel in the gallery, Aqualung sono alcuni degli album con i pezzi composti da Ian Anderson con i Jethro Tull, contribuendo alle sperimentazioni musicali e artistiche degli anni 70 e in particolare del progressive rock. Anderson sembra uscire fuori da un racconto di Cortázar, una sorta di Johnny Carter per intenderci, dove la ricerca della dimensione magica, onirica attraverso la musica è sinonimo di catarsi. «L’ho suonato domani», dice il protagonista del racconto. Lui abbraccia un unico spazio fatto di realtà e allucinazione, restando perciò sempre un passo avanti al dipanarsi della Storia. Insegue il suo stesso genio artistico trasformandosi sul palco in molteplici personaggi come il giullare o il menestrello e tra i denti sempre il suo flauto traverso. Sono maschere che non nascondono il curioso Ian dai capelli lunghi arruffati, i fianchi stretti e con gli occhi tirati da un’ironica follia luciferina ma aprono alla visionarietà completandolo, proprio come le tante voci si allungano e si riflettono in una eco.

Cosa ha influito sul tuo linguaggio musicale e sulla scrittura dei testi?
L’arte visiva è fonte del 90 per cento di quello che scrivo. Sono stato molto appassionato di pittura e fotografia fin dai primi anni di college. Apprezzo la grandezza degli impressionisti, la surrealtà di Magritte ma in particolare sono affascinato da un certo filone di fotografi che rappresentano l’uomo che si muove all’interno di un piccolo spazio. Insomma, non amo particolarmente i ritratti stretti o i paesaggi senza personaggi. E così è per la scrittura; è per me come entrare in un teatro seduto a guardare uno spettacolo osservando gli attori che interpretano il loro personaggio, quello che fanno muovendosi all’interno della scenografia che ha per me un’importanza secondaria.

Quali fotografi ti hanno più ispirato?
Ammiro il documentarista Cartier-Bresson. Lui parte dalla scena e perciò dall’ambiente, dalla luce, dalle distanze mettendoli a fuoco con l’obiettivo della sua macchina fotografica per poi aspettare che questo spazio venga riempito dalle persone e dalle attività che svolgono creando anche una certa sfumatura dell’immagine dando vita a un vero e proprio spettacolo sociale. Tornando all’immagine teatrale è come se lui resti in attesa a guardare il palco con le tende aperte finché si riempia. Nel Regno Unito abbiamo avuto una scuola di pittori chiamata La scuola di Newland dal nome di un piccolo villaggio portuale nella Cornovaglia occidentale a sud-ovest dell’Inghilterra, ed era molto popolare nell’Ottocento, una sorta di anticipazione del pensiero fotografico documentarista dove si raffiguravano soprattutto lavoratori, pescatori dediti alle loro attività quotidiane nel loro scenario ambientale, per lo più marittimo. Si tratta di persone vere in luoghi reali. Io non…

(Traduzione di Ruben Vitiello)


L’articolo prosegue su Left del 29 gennaio – 4 febbraio 2021

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