Centomila morti fa avevamo problemi che ci disturbavano il sonno e che ora sogniamo che tornino, piccoli come ci appaiono rispetto al nero che si è spanso centomila morti dopo. Se ci pensate centomila morti fa intravedevamo un futuro, un futuro magari difficile, ostico, piuttosto faticoso, che ci sarebbe costato, tutto da conquistare ma ci si alzava al mattino successivo dicendosi dai ora vediamo di sistemare le cose e invece oggi, centomila morti dopo, abbiamo l'orrenda sensazione che le cose si sistemino solo grazie a fattori esterni di cui non abbiamo controllo e nemmeno troppa contezza. Centomila morti fa se ci avessero detto che in un anno sarebbe scomparso dalla cartina geografica un intero capoluogo di provincia non ci avremmo mai creduto, i soliti apocalittici avremmo risposto e poi ci saremmo dati di gomito. Centomila morti tra l'altro sono almeno dieci parenti, una decina di amici, sono due milioni di persone che si portano addosso il lutto e hanno paura del lutto successivo mentre hanno la sensazione che stia salendo le scale del pianerottolo. Centomila morti fa ci ripetevamo che sarebbe andato tutto bene, lo scrivevamo perfino sui cartelloni, avevamo una vitalità che si era convinta semplicemente di dover prendere un po' di rincorsa per saettare fuori veloce e invece centomila morti dopo ci siamo convinti che l'ottimismo sia irrispettoso, sia una maleducata mancanza di rispetto. Centomila morti fa ci dicevano che dipendeva tutto da noi e invece centomila morti dopo ci possiamo dire serenamente che no, che noi contiamo per le precauzioni che possiamo adottare ma l'architettura del mondo che abitiamo, dalla scuola al lavoro al modo in cui ci spostiamo al modo in cui usufruiamo dei nostri servizi primari, non è stata capace di adattarsi e ancora adesso rincorre il virus e si preoccupa della retorica. La retorica, appunto: dicono abbiate fiducia, non perdete la fiducia e intanto si perde il lavoro, si logorano i risparmi, si perde la casa, si perde l'istruzione, si perde perfino la possibilità di curarsi una malattia che non sia il virus di cui tutti parlano perché intanto il virus di cui tutti parlano si è mangiato il resto di cui si fatica a parlare. A livello generale si è instaurato lo stigma che prima valeva solo per le piccole situazioni: si è stanchi ma non si deve dire, eppure si è stanchi non perché non si è consapevoli dell'inevitabile ma perché i numeri continuano a traballare, le soluzioni sono le stesse ripetute negli stessi modi (anche da quelli che prima strepitavano e ora al governo semplicemente non strepitano più). Si è stanchi perché la speranza declamata è un bluff ormai riconosciuto da tutti: la speranza si progetta, si costruisce, si mantiene, si revisiona. La speranza non si dice. Buon martedì.

Centomila morti fa avevamo problemi che ci disturbavano il sonno e che ora sogniamo che tornino, piccoli come ci appaiono rispetto al nero che si è spanso centomila morti dopo. Se ci pensate centomila morti fa intravedevamo un futuro, un futuro magari difficile, ostico, piuttosto faticoso, che ci sarebbe costato, tutto da conquistare ma ci si alzava al mattino successivo dicendosi dai ora vediamo di sistemare le cose e invece oggi, centomila morti dopo, abbiamo l’orrenda sensazione che le cose si sistemino solo grazie a fattori esterni di cui non abbiamo controllo e nemmeno troppa contezza.

Centomila morti fa se ci avessero detto che in un anno sarebbe scomparso dalla cartina geografica un intero capoluogo di provincia non ci avremmo mai creduto, i soliti apocalittici avremmo risposto e poi ci saremmo dati di gomito. Centomila morti tra l’altro sono almeno dieci parenti, una decina di amici, sono due milioni di persone che si portano addosso il lutto e hanno paura del lutto successivo mentre hanno la sensazione che stia salendo le scale del pianerottolo.

Centomila morti fa ci ripetevamo che sarebbe andato tutto bene, lo scrivevamo perfino sui cartelloni, avevamo una vitalità che si era convinta semplicemente di dover prendere un po’ di rincorsa per saettare fuori veloce e invece centomila morti dopo ci siamo convinti che l’ottimismo sia irrispettoso, sia una maleducata mancanza di rispetto.

Centomila morti fa ci dicevano che dipendeva tutto da noi e invece centomila morti dopo ci possiamo dire serenamente che no, che noi contiamo per le precauzioni che possiamo adottare ma l’architettura del mondo che abitiamo, dalla scuola al lavoro al modo in cui ci spostiamo al modo in cui usufruiamo dei nostri servizi primari, non è stata capace di adattarsi e ancora adesso rincorre il virus e si preoccupa della retorica.

La retorica, appunto: dicono abbiate fiducia, non perdete la fiducia e intanto si perde il lavoro, si logorano i risparmi, si perde la casa, si perde l’istruzione, si perde perfino la possibilità di curarsi una malattia che non sia il virus di cui tutti parlano perché intanto il virus di cui tutti parlano si è mangiato il resto di cui si fatica a parlare.

A livello generale si è instaurato lo stigma che prima valeva solo per le piccole situazioni: si è stanchi ma non si deve dire, eppure si è stanchi non perché non si è consapevoli dell’inevitabile ma perché i numeri continuano a traballare, le soluzioni sono le stesse ripetute negli stessi modi (anche da quelli che prima strepitavano e ora al governo semplicemente non strepitano più). Si è stanchi perché la speranza declamata è un bluff ormai riconosciuto da tutti: la speranza si progetta, si costruisce, si mantiene, si revisiona. La speranza non si dice.

Buon martedì.

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.