La Società della cura, dopo un percorso di quasi un anno, ha indicato proposte precise per un nuovo modello sociale solidale. Un salto di paradigma rispetto all'approccio industrialista-economicista. Ne parlano Monica Di Sisto, Raffaella Bolini e Marco Bersani

La strada della “società della cura” è partita a giugno 2020 con un “picnic ribelle” a Villa Pamphilj. Era il tempo in cui si pensava di essere quasi usciti dall’incubo pandemico e il governo convocava “gli Stati generali dell’economia” per il piano di ripresa. «Quando ho visto il governo Conte invitare alcune realtà sociali e ambientaliste a discutere lasciandone altre fuori, a protestare, – dice Monica Di Sisto, ideatrice del picnic ribelle – è scattato, e non solo in me, un riflesso democratico: un senso di mancanza tra la suggestiva cornice di Villa Pamphilj e la realtà del Paese sprofondata dal Covid nell’ennesima crisi e al buio di risposte». Così non ci è voluto molto per trovarci a discutere in tanti a Villa Pamphilj, al margine degli Stati generali. Si è proseguito in modo virtuale.

Adesso su quella strada camminano 300 associazioni e si sono incontrate circa mille persone: impresa sorprendente, nel mare di solitudine che un anno fa avevamo combattuto con canti e suoni dai balconi, che invece ci è ripiombato addosso con il suo carico di disastri umani, di proteste economiche, di degrado della politica.

Attraverso queste traversie, la società della cura ha proseguito il suo cammino, perché è nata da una necessità, spiega Raffaella Bolini, una protagonista: «Credo ci abbia accomunato la necessità – quasi un dovere di cittadinanza – di provare a mettere in campo un’ iniziativa all’altezza di un tempo speciale. La pandemia sta dando dure lezioni all’umanità, e a prezzi altissimi dimostra ciò che diciamo inascoltati da decenni: globalizzare l’ingiustizia, commettere ecocidio, mercificare la vita porta a distruggere le condizioni del vivere sulla terra. Ci mostra quali sono i lavori essenziali, quasi sempre i meno pagati e i meno considerati. Ci dice che la sicurezza di ciascuno dipende da quanto sono al sicuro tutti gli altri. Queste lezioni non possono andare sprecate».

Aggiunge Marco Bersani: «È interessante che l’idea sia venuta contemporaneamente a più soggetti, su una identica riflessione: la pandemia ha accelerato le contraddizioni del capitalismo, rendendolo totalmente insostenibile e ha obbligato ciascuno di noi a cercare nuovi paradigmi per rendere più comprensibile l’alternativa di società. Dentro una tragedia che è anche la solitudine di ciascuno, il concetto di cura rende evidente di quale società ci sia urgente bisogno».

Il paradigma della cura viene da lontano, dice Monica: «…lo avevamo conosciuto nelle reti ecofemministe, ma soprattutto in America latina le realtà con cui siamo da sempre in dialogo, stavano organizzando concettualmente la loro reazione al Covid. Lo abbiamo condiviso e rilanciato ed eccoci qui, con tanta strada ancora da fare».

Anche Raffaella ne è convinta: «La cura è gesto, azione, pratica concreta. La cura è bisogno primordiale: i cuccioli, nella nostra specie, muoiono se non accuditi. La cura è un sentimento potente: rende forti i deboli per proteggere se stessi, la prole, il branco, la comunità. La cura è il contrario dell’odio, intorno a cui la destra ha costruito il suo consenso. Non è la rabbia che fa la storia. È l’amore per sè, per gli altri e le altre, per la natura ed il pianeta, che cambia davvero le cose: difendiamo la vita, presente e futura, umana e naturale. È un passaggio importante, nella cultura e persino nell’etica della sinistra: l’analisi razionale dei problemi non basta, c’è bisogno di ricostruire collettivamente un senso al nostro passaggio sulla terra, un senso al nostro esistere in un mondo che senso pare non averne più».

Alle spalle c’è quella storia di movimenti sociali che hanno messo insieme le forze, consapevoli che idee nuove e grandi possono nascere dallo scambio e dall’ascolto reciproco – contaminazione si diceva – con l’orizzonte comune di una trasformazione radicale: «Mi pare il passaggio più importante che abbiamo compiuto, in modo quasi naturale: dare un nome all’alternativa, dire cosa è quel mondo diverso possibile per cui abbiamo tanto lottato, la società della cura. È come se la pandemia, mettendo al centro la salute, abbia fatto emergere quello che finora era appartenuto solo al pensiero femminista, all’eco -femminismo, alle culture indigene: il mondo è malato, ha bisogno di cura».

A 20 anni dal Forum sociale di Genova e dal primo Forum mondiale di Porto Alegre, mi sembra di vederne tracce nella Società della cura: «Allora, per la prima volta dopo decenni, dice Marco – si disse che un altro mondo era possibile, oggi a quel mondo abbiamo dato il nome di società della cura, un orizzonte dentro cui ogni persona possa riconoscersi. Le due esperienze sono accomunate da comuni analisi, riflessioni e proposte, ma quello era un movimento immediatamente globale e planetario (con un radicamento territoriale insufficiente), mentre questo è un percorso nazionale e territoriale (e, per questo, sconta ancora alcune difficoltà teoriche e di iniziativa globale)».

Raffaella pone una questione in più: «La fatica e la gioia di costruire uno spazio comune per superare la frammentazione riprende sicuramente la pratica dei Forum sociali, e anche tanti contenuti dell’ altermondialismo. La vera differenza con quella esperienza mi pare sia che oggi ciascuno è forte dei propri contenuti, ma sappiamo tutti che non basta metterli uno a fianco all’altro. C’è una sintesi da costruire, una sorta di vocabolario nuovo che comprenda tutti e tutte. Abbiamo le tessere del mosaico, ma sentiamo che è ora di realizzarlo, attraverso una convergenza, dove ciascuno mantiene la propria identità, la propria agenda, la propria specificità, per comporre un disegno comune di società altra».

A novembre decine di manifestazioni diffuse. Ho visto a Roma in Piazza del Popolo, inattesa e colorata partecipazione, ricca di una forte volontà di riprendere la parola, di dire la necessità e il desiderio di imprimere una svolta, di uscire dalla solitudine.

A marzo una plenaria virtuale ha composto il Recovery PlanET: un assemblaggio, insieme alle letture femminista e ecologista, di proposte (Agricoltura e allevamento. Debito e finanza. Democrazia. Digitalizzazione. Una prospettiva di genere. Ecologia e ambiente. Formazione, ricerca e cultura. Infrastrutture sociali e welfare. Lavoro. Migrazioni. Pace, disarmo, giustizia globale. Salute. Territori, città, aree interne, abitare, turismo. Trasporti e Mobilità). La domanda più naturale: questo cammino ha dato risultati?

Marco ne ha chiari tre: «a) aver superato la fase difensiva e posto la sfida sull’alternativa di società; b) aver dato un nome a questa alternativa, permettendo l’aggregazione di soggetti differenti in un comune orizzonte; c) aver praticato la costruzione di una convergenza fra realtà, esperienze, lotte e pratiche non chiedendo alcuna omologazione, ma proponendone la sinergia, come tasselli della trasformazione sociale».

Monica è convinta soprattutto della sua originalità di “artigianato politico”. «È un processo autenticamente politico, parte da un’analisi quanto più possibile condivisa, cerca di cucire tutto ciò che è a disposizione, e si mobilita al meglio che si può nel contesto dato. Stiamo procedendo piano ma senza mai retrocedere, in una situazione in cui non si vede tanto altro in campo. Aver scelto la prospettiva femminista della cura abbracciando la sfida della cura del vivente e rinunciando all’ approccio economicista-industrialista e antropocentrico mi sembra un’ obbedienza alla realtà, sempre più compresa come necessaria anche nei diversi spazi di movimento e azione sociale. Tocca a tutte e tutti, essere capaci di farla camminare su più gambe (e teste) possibili, includendo, spiegando, cucendo. I più giovani, impegnati nell’ambiente e nel mutualismo, le seconde generazioni, ce ne ricordano sempre l’urgenza: “Non c’è più tempo da perdere, questo disastro che ci state consegnando va affrontato insieme, ora”».

E per questo si tessono fili con altre realtà in movimento: Non Una di Meno e l’assemblea della Magnolia della Casa internazionale delle donne, Black lives matter e Fridays for future… In mezzo a una politica che abbiamo visto diventare palude, per poi scattare ad applaudire unanimemente l’uomo di Bruxelles, potranno avere un peso queste persone, queste idee, queste volontà? «L’avere peso – dice Marco – dipenderà da quanto il percorso della società della cura sarà capace di comunicare non solo alle attiviste e agli attivisti ma all’insieme della società; da questo punto di vista i percorsi territoriali che si stanno costruendo sono di assoluto buon auspicio».

Raffaella guarda oltre: «La vera prova credo che debba ancora arrivare, ed è la capacità di trasformare in mobilitazione questo intenso e positivo lavoro collettivo. La pandemia ce lo impedisce per ora, ma questo è il salto che dobbiamo prepararci a fare. Il potere è sordo, offrire un punto di riferimento positivo contro la frustrazione di tante persone è ancor più necessario». Certo la strada è lunga e accidentata, anche da un virus che non arretra, per percorrerla dobbiamo avere una bussola: sostituire il “noi” cooperante all’”io” competitivo.