Abbiamo chiesto ad alcuni liceali di città diverse di raccontarci come vorrebbero che fosse trasformata la scuola. Ecco le loro proposte e aspettative Ludovico Ottolina, Unione degli studenti - Milano È ormai da più di un anno che la scuola è messa in fondo alle priorità del Paese... o forse sarebbe meglio dire che sono ormai anni. Sì, sono ormai troppi anni che la scuola viene definanziata, smantellata, decostruita in favore di un modello subordinato a un processo di privatizzazione che riforma dopo riforma si fa avanti. Un anno fa, poi, abbiamo avuto la prova schiacciante di ciò che ci trascinavamo dietro da molto: i bar sono aperti, i centri commerciali anche, ma le scuole vengono chiuse, ovviamente per prime, considerate non un bene di prima necessità. Si entra in emergenza, una pandemia inaspettata, non calcolabile e apparentemente senza via di uscita. Per i primi mesi tutto sembra immobile, poi si iniziano a riconoscere le responsabilità del sistema in cui viviamo di fronte a questo disastro. I giovani vengono da subito visti come i responsabili, gli untori: si cerca di guardare il dito invece di vedere i veri motivi dei contagi; chissà... forse per paura, o forse, più probabilmente, perché molto più facile. In quei mesi di spartizione delle colpe si è avuto modo di percepire la prima forte contraddizione palesata dalla pandemia. Responsabili i giovani o il sistema che li educa? Negare gli assembramenti sarebbe un atto di cecità, ma risulta necessario indagare più alla radice il loro verificarsi. Gli studenti e le studentesse vivono una scuola che educa all’individualismo più sfrenato attraverso una valutazione alienante e una didattica che non vuole essere partecipata e partecipativa. Per questo non si richiede tanto l’apertura o la chiusura delle scuole, quanto più quindi un cambio radicale della didattica, che diventi cura del mondo che viviamo, educando alla responsabilità collettiva. Introduciamo ora, invece, quella spaventosa parola che dal primo giorno di pandemia ci ha accompagnati: la Dad, la didattica a distanza, spacciata come strumento emergenziale per consentire l’accesso a tutti e tutte al diritto allo studio. Qui troviamo la seconda grande contraddizione, come può la Dad garantire il diritto allo studio se la scuola già di per sé non lo garantiva? Durante la didattica in presenza ogni famiglia, solo per i libri, spende più di 400 euro in media, a cui si aggiungono i costi dei mezzi (non realmente pubblici e gratuiti), del materiale scolastico e del contributo “volontario” richiesto dalle scuole. Se siamo sull’orlo di una delle crisi economiche più grandi del secolo e se pensiamo che la scuola sia lo strumento per uscirne, dobbiamo fare sì che essa sia davvero accessibile a tutte e tutti, rendendola realmente gratuita e abbattendo il “caro trasporti” e il “caro libri”. Inoltre, per garantire realmente il diritto allo studio è necessario ripensare un’istruzione territoriale, facilmente raggiungibile, come strumento di autodeterminazione con l’utilizzo del reddito di formazione, già usato in altri Stati europei, che consente di liberarsi dal welfare di tipo familistico e di crescere liberi dalle proprie condizioni socioeconomiche. Tra mille peripezie si è arrivati allo scorso settembre, il mese che avrebbe dovuto essere quello della ripartenza, pur essendo tutti e tutte consapevoli che sarebbe stato solo un ritorno a una normalità ancora più distrutta, proprio quella che contestavamo da tempo. Il ritorno a singhiozzo ha da subito dimostrato le sue inadeguatezze, trasporti affollati e classi pollaio, pericolose da un punto di vista sanitario, ma denunciate da anni per i problemi didattici che creano. Da settembre abbiamo iniziato a mobilitarci e a richiedere più trasporti e più scuole, più spazi, più organico per la stabilizzazione dei precari. Abbiamo iniziato con cortei e presìdi, poi abbiamo iniziato a occupare le scuole e ora da un mese abbiamo occupato il Piccolo teatro di Milano insieme ai lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, costruendo un ragionamento che miri a percepire la cultura come nuovo fondamento per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Ora siamo tornati a scuola e l’intento è molto chiaro: si è tornati per essere valutati, perché questo è il vero obiettivo del sistema di istruzione ora; identificare ogni studentessa e ogni studente con un numero, per abituare a come si farà nel mondo del lavoro. Vogliamo una scuola che valorizzi e non giudichi, una scuola che abbia un ruolo trasformativo sulla società in cui viviamo e non insegni a viverci in modo subordinato, una scuola che cambi il lavoro, e non ne replichi le criticità. Martino Bertocci e Giorgia Petracchi, studenti di liceo classico - Firenze La più grande scommessa che ci troviamo di fronte è quella di non sprecare l’opportunità di cambiamento che ci offre in molti settori questa tragica pandemia. In Italia, Paese dell’Ue con il più alto tasso di Neet (persone che non studiano né cercano un impiego, e non si stanno formando, ndr) tra i 15 e i 29 anni, quelli più colpiti siamo stati noi giovani. Siamo stati privati - ovviamente per validi motivi - della nostra socialità e soprattutto delle nostre aule. Solo quando ci siamo trovati costretti in casa, esiliati dal nostro banco, ci siamo accorti, nella mancanza, di quanto fosse importante per noi e per la nostra crescita la scuola. Quest’ultima è infatti un luogo di maturazione... nb. L'articolo prosegue con l'intervento di Bianca Chiesa, Unione degli studenti - Torino   [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]
L'articolo prosegue su Left del 30 aprile - 6 maggio 2021
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Abbiamo chiesto ad alcuni liceali di città diverse di raccontarci come vorrebbero che fosse trasformata la scuola. Ecco le loro proposte e aspettative

Ludovico Ottolina, Unione degli studenti – Milano
È ormai da più di un anno che la scuola è messa in fondo alle priorità del Paese… o forse sarebbe meglio dire che sono ormai anni. Sì, sono ormai troppi anni che la scuola viene definanziata, smantellata, decostruita in favore di un modello subordinato a un processo di privatizzazione che riforma dopo riforma si fa avanti. Un anno fa, poi, abbiamo avuto la prova schiacciante di ciò che ci trascinavamo dietro da molto: i bar sono aperti, i centri commerciali anche, ma le scuole vengono chiuse, ovviamente per prime, considerate non un bene di prima necessità. Si entra in emergenza, una pandemia inaspettata, non calcolabile e apparentemente senza via di uscita. Per i primi mesi tutto sembra immobile, poi si iniziano a riconoscere le responsabilità del sistema in cui viviamo di fronte a questo disastro.
I giovani vengono da subito visti come i responsabili, gli untori: si cerca di guardare il dito invece di vedere i veri motivi dei contagi; chissà… forse per paura, o forse, più probabilmente, perché molto più facile. In quei mesi di spartizione delle colpe si è avuto modo di percepire la prima forte contraddizione palesata dalla pandemia. Responsabili i giovani o il sistema che li educa? Negare gli assembramenti sarebbe un atto di cecità, ma risulta necessario indagare più alla radice il loro verificarsi. Gli studenti e le studentesse vivono una scuola che educa all’individualismo più sfrenato attraverso una valutazione alienante e una didattica che non vuole essere partecipata e partecipativa. Per questo non si richiede tanto l’apertura o la chiusura delle scuole, quanto più quindi un cambio radicale della didattica, che diventi cura del mondo che viviamo, educando alla responsabilità collettiva.
Introduciamo ora, invece, quella spaventosa parola che dal primo giorno di pandemia ci ha accompagnati: la Dad, la didattica a distanza, spacciata come strumento emergenziale per consentire l’accesso a tutti e tutte al diritto allo studio. Qui troviamo la seconda grande contraddizione, come può la Dad garantire il diritto allo studio se la scuola già di per sé non lo garantiva?
Durante la didattica in presenza ogni famiglia, solo per i libri, spende più di 400 euro in media, a cui si aggiungono i costi dei mezzi (non realmente pubblici e gratuiti), del materiale scolastico e del contributo “volontario” richiesto dalle scuole. Se siamo sull’orlo di una delle crisi economiche più grandi del secolo e se pensiamo che la scuola sia lo strumento per uscirne, dobbiamo fare sì che essa sia davvero accessibile a tutte e tutti, rendendola realmente gratuita e abbattendo il “caro trasporti” e il “caro libri”. Inoltre, per garantire realmente il diritto allo studio è necessario ripensare un’istruzione territoriale, facilmente raggiungibile, come strumento di autodeterminazione con l’utilizzo del reddito di formazione, già usato in altri Stati europei, che consente di liberarsi dal welfare di tipo familistico e di crescere liberi dalle proprie condizioni socioeconomiche.
Tra mille peripezie si è arrivati allo scorso settembre, il mese che avrebbe dovuto essere quello della ripartenza, pur essendo tutti e tutte consapevoli che sarebbe stato solo un ritorno a una normalità ancora più distrutta, proprio quella che contestavamo da tempo. Il ritorno a singhiozzo ha da subito dimostrato le sue inadeguatezze, trasporti affollati e classi pollaio, pericolose da un punto di vista sanitario, ma denunciate da anni per i problemi didattici che creano. Da settembre abbiamo iniziato a mobilitarci e a richiedere più trasporti e più scuole, più spazi, più organico per la stabilizzazione dei precari. Abbiamo iniziato con cortei e presìdi, poi abbiamo iniziato a occupare le scuole e ora da un mese abbiamo occupato il Piccolo teatro di Milano insieme ai lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, costruendo un ragionamento che miri a percepire la cultura come nuovo fondamento per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.
Ora siamo tornati a scuola e l’intento è molto chiaro: si è tornati per essere valutati, perché questo è il vero obiettivo del sistema di istruzione ora; identificare ogni studentessa e ogni studente con un numero, per abituare a come si farà nel mondo del lavoro. Vogliamo una scuola che valorizzi e non giudichi, una scuola che abbia un ruolo trasformativo sulla società in cui viviamo e non insegni a viverci in modo subordinato, una scuola che cambi il lavoro, e non ne replichi le criticità.

Martino Bertocci e Giorgia Petracchi, studenti di liceo classico – Firenze
La più grande scommessa che ci troviamo di fronte è quella di non sprecare l’opportunità di cambiamento che ci offre in molti settori questa tragica pandemia. In Italia, Paese dell’Ue con il più alto tasso di Neet (persone che non studiano né cercano un impiego, e non si stanno formando, ndr) tra i 15 e i 29 anni, quelli più colpiti siamo stati noi giovani. Siamo stati privati – ovviamente per validi motivi – della nostra socialità e soprattutto delle nostre aule. Solo quando ci siamo trovati costretti in casa, esiliati dal nostro banco, ci siamo accorti, nella mancanza, di quanto fosse importante per noi e per la nostra crescita la scuola. Quest’ultima è infatti un luogo di maturazione…

nb. L’articolo prosegue con l’intervento di Bianca Chiesa, Unione degli studenti – Torino

 


L’articolo prosegue su Left del 30 aprile – 6 maggio 2021

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