«Lo sviluppo di vaccini con tecnologia mRna rappresenterà un “salto quantico” anche nel trattamento di altre patologie» dice la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo. Ma perché anche l’Italia possa fare la sua parte «occorre uno scatto di paradigma nel racconto della scienza e nella scienza stessa»

Forse mai come in questi 15 mesi di pandemia è stato evidente quanto incida la ricerca scientifica sulla vita privata e pubblica di ciascun essere umano. L’immane sforzo scientifico e tecnologico per arrivare nel tempo più breve possibile a realizzare vaccini e a individuare i trattamenti più efficaci contro il Sars-Cov-2 ha coinvolto governi, laboratori scientifici e popolazioni di tutto il pianeta. Oltre ovviamente al mondo della divulgazione e dell’informazione. Ma cosa resterà di questa “esperienza” collettiva quando finalmente sarà superata la crisi globale provocata dal coronavirus? Partendo da questa domanda ci siamo chiesti quali ricadute potranno avere sulla ricerca per la cura di malattie diverse dal Covid-19 le conquiste scientifiche di questi mesi e se e come cambierà il peso del parere scientifico nelle decisioni politiche. Per provare a orientarci ma anche per liberarci di paure e diffidenze abbiamo pensato di rivolgere questi e altri quesiti alla senatrice a vita Elena Cattaneo, scienziata attiva nel campo della ricerca sule cellule staminali.
«Con la pandemia – osserva Cattaneo – abbiamo sperimentato un senso di vulnerabilità al contagio e alla malattia di cui da decenni, come singoli e come comunità, avevamo perso memoria. Paradossalmente, proprio le conquiste conoscitive in campo medico, assicurando livelli di salute e benessere mai immaginati in passato, avevano fatto dimenticare l’importanza della medicina per la sopravvivenza del genere umano. Di fronte alla riscoperta di quella sensazione di impotenza e di paura per la propria salute e per quella dei propri cari, i cittadini hanno reagito cercando nella scienza e nei tanti esperti interpellati quotidianamente in tv e sui giornali tutte le risposte alle incertezze di un futuro improvvisamente cupo. Abbiamo assistito quindi a un generale innamoramento e trasporto verso la scienza, dettato dalla paura».
Spesso l’opinione pubblica è rimasta spiazzata da risposte ritenute contraddittorie da parte degli scienziati di varie discipline impegnati nella “lotta” contro il Covid-19. La mancanza di chiarezza ha alimentato ancor di più la paura?
La scienza non è fatta per dare certezze a comando, previsioni da oracolo, prescrizioni infallibili, non è una sfera di cristallo da interrogare al bisogno per ottenere la soluzione immediata a un problema, bensì un metodo che rende possibile conquistare nuove conoscenze attraverso l’indagine, la sperimentazione, lo studio, la verifica; un metodo da costruire e sostenere ogni giorno, per essere pronti all’imprevisto. L’iniziale “innamoramento” per la scienza dettato dalla paura oggi è in via di affievolimento; quanto più gli studiosi sono stati veloci a costruire e rendere disponibili al mondo le nuove conoscenze, tanto più velocemente è svanito l’interesse del pubblico, che ormai dà quelle conquiste per acquisite e magari lamenta che non siano abbastanza celeri o efficaci. La sfida comunicativa del post-Covid sarà quella di recuperare quella prima attrazione di “pancia” verso la scienza che hanno provato molti cittadini per consolidare la fiducia e la familiarità col metodo scientifico, trasformando una “passione” momentanea in una “relazione” solida e duratura.
In questi 14 mesi anche la politica ha sperimentato un nuovo rapporto con la scienza. È d’accordo?
Certamente. Se, infatti, la scienza può fornire metodo, dati, risultati, certezze e probabilità, è sempre la politica ad avere la responsabilità di dire l’ultima parola, di scegliere. Una responsabilità che, laddove “la decisione perfetta” è impossibile, implica anche la capacità di saper gestire con prontezza e coraggio le conseguenze delle scelte assunte, quando gli effetti non corrispondano alle aspettative. In futuro, la scienza continuerà a fornire alla politica evidenze e azioni possibili, basandosi su fatti documentati. L’auspicio è che la politica sappia fare la necessaria sintesi tra quei fatti e gli interessi generali della popolazione, con l’obbligo però – questa è l’essenza delle istituzioni democratiche – di motivare responsabilmente al Parlamento e ai cittadini “i perché” delle decisioni prese.
Non era mai accaduto che si riuscisse a produrre vaccini sicuri ed efficaci in così poco tempo. Fermo restando che lo sforzo prodotto a livello globale per sconfiggere il coronavirus sarà vano fino a quando la somministrazione non sarà accessibile a tutti in qualsiasi angolo del pianeta, come si può far tesoro di un’impresa che ovviamente si è basata in primis sulla condivisione di dati e conoscenze?
Anche nell’enorme impresa scientifica realizzata per fronteggiare il Covid-19 dobbiamo aver ben chiaro che siamo stati come i proverbiali “nani sulle spalle dei giganti”: siamo riusciti a farci forti del sapere accumulato da chi è venuto prima di noi. In particolare, per cominciare a sviluppare un vaccino contro il Covid-19 non si è partiti da zero: molti scienziati e gruppi di ricerca si sono potuti basare sugli studi già fatti (ad esempio su Mers e Sars); sul fatto che alcune ipotesi erano state già escluse e quindi non si è “perso tempo” nuovamente a esplorare quelle strade; addirittura sul materiale genetico, conservato dai tempi della prima Sars, che ha permesso di riprodurre in breve tempo migliaia di topi geneticamente modificati per studiare come i coronavirus attaccano l’organismo, e metterli a disposizione dei laboratori di tutto il mondo. Quell’immane sforzo – guai a dimenticarlo – è stato possibile, e ha prodotto risultati in un tempo brevissimo, soprattutto grazie alla ricerca di base svolta nei decenni precedenti.
Non si può non pensare a Ugur Sahin e a sua moglie Özlem Türeci, fondatori della BioNtech…
Sahin non è solo il “padre” di uno degli innovativi vaccini sviluppati grazie all’uso dell’Rna messaggero, ad oggi approvato e in uso in tutta Europa. Lui è uno scienziato che pochi anni fa ha vinto un importante finanziamento alla ricerca di base dello European research council, finalizzato a individuare terapie immunologiche contro il cancro. E lo sviluppo di vaccini con tecnologia mRna rappresenterà certamente un “salto quantico” anche nel trattamento di altre patologie, con infinite potenziali applicazioni. Per questo è importante, anzi vitale, e lo dico con particolare attenzione riguardo all’Italia, continuare (o, per essere più precisi, riprendere massicciamente) a investire oggi nella ricerca di base, che non fornisce “risposte” immediate e dirette ai problemi, ma, libera di porre e porsi domande in ogni ambito, porta a scoperte enormi, spesso dal potenziale applicativo infinito e inaspettato.
Ritiene che il mondo della politica italiana abbia compreso fino in fondo l’importanza di questo “metodo” di lavoro che peraltro si basa su scelte coraggiose e sulla capacità di mettersi in gioco continuamente e a viso scoperto?
La ricerca scientifica in ogni ambito, soprattutto quella “curiosity driven”, è un’insostituibile fucina di nuove strade conoscitive e di future applicazioni innovative. La dimensione della scienza è stata sempre e inevitabilmente più ampia di quella imposta dai confini geografici e tra discipline: il “sovranismo scientifico”, di tutta evidenza, è una prospettiva insensata e fallimentare. La forza di un’idea, del volerla verificare, del volersi confrontare con chi studia le stesse cose nel mondo ha sempre portato gli studiosi a collaborare e confrontarsi al di là di qualunque barriera. Oggi con la pandemia ne abbiamo avuto conferma: penso ad esempio al fatto che una delle direzioni che sta prendendo la ricerca nelle scienze della vita è quella di studiare un vaccino unico e universale contro tutti i coronavirus, da mettere a disposizione di tutti, senza frontiere, senza distinzioni di sorta.
L’Italia potrà avere un ruolo in questa impresa? C’è chi pensa di costruire nuovi centri di ricerca.
In quest’ottica e in una prospettiva nazionale io mi chiedo che senso abbia. Come si può pensare di accentrare un’attività per definizione fluida, aperta, resistente a ogni tentativo di “imbottigliamento” com’è quella della ricerca scientifica? Non ha forse più senso, pensare a ogni mezzo possibile per favorire la collaborazione e lo scambio di idee, pensare a un coordinamento solido e affidabile sulle tematiche di frontiera? L’isolamento forzato di quest’ultimo periodo ha dimostrato che scambi fruttuosi sono possibili anche senza concentrare fisicamente risorse e personale in un solo luogo, che il modello dell’“eccellenza diffusa”, in cui ognuno mette in rete il proprio pezzo di conoscenza, è più attrattivo, intelligente e adatto al mondo di oggi rispetto alla creazione di nuovi “mucchi di mattoni”, che rispecchia invece una concezione un po’ obsoleta e “feudale” della ricerca.
Come se ne esce?
Serve un cambio di paradigma nel racconto della scienza e nella scienza stessa, che deve uscire dalla dimensione fisica e ristretta del laboratorio per costituire una rete, solida ma flessibile, di migliaia di menti che lavorano all’unisono, per strappare sempre nuovi pezzi di conoscenza all’ignoto e consegnare all’umanità un presente e un futuro in cui saremo sempre più curiosi e meno spaventati dalle sfide che ci attendono.
Soldi pubblici alla ricerca in Italia. Possiamo esser soddisfatti di quanto è stato stanziato nel Pnrr oppure per l’ennesima volta si è persa un’occasione sia per valorizzare i nostri ricercatori che per rendere l’Italia un Paese ambito dai ricercatori stranieri?
Non posso che ricordare quanto ho affermato nel mio discorso in Senato lo scorso 27 aprile, e cioè che quelli previsti dal Pnrr sono piani di investimento in ricerca importantissimi, ma straordinari. Non ci si può aspettare che bastino a rivitalizzare un settore finanziato poco e male da decenni, e soprattutto non la ricerca di base, sulla quale servirebbe avere come voce strutturale del bilancio dello Stato fondi specifici, per gli studi in tutti gli ambiti (umanistico, artistico, scientifico). L’ordinario oltre lo straordinario, insomma: quelle richieste di cui si sono fatti latori gli studiosi firmatari del cosiddetto “Piano Amaldi”, che mira ad aumentare l’investimento italiano in ricerca per portarlo a una quota del Pil nazionale più prossima a quella di altri Paesi europei paragonabili. Con soddisfazione per tutti coloro che si sono spesi in questa direzione, il presidente Draghi ha esplicitamente riconosciuto e accolto queste istanze, impegnandosi ad agire in questo senso anche nella prossima legge di Bilancio.
Concretamente cosa bisogna fare?
Bisogna lavorare ad una voce di bilancio di un nuovo ordine di grandezza, mai visto in passato, che però deve avere come presupposto irrinunciabile l’allocazione delle risorse competitiva e trasparente, con importi, tempistiche, obblighi di gestione e rendicontazione certi e uguali opportunità per tutti di partecipare alla competizione. Queste sono le regole secondo cui funziona la ricerca europea e internazionale, e un Paese come il nostro non può permettersi di ignorarle. In questo senso, è importante che la ministra dell’Università Cristina Messa abbia ribadito che i “centri” previsti nel Pnrr non sono ennesime “cattedrali nel deserto” da costruire da zero e su cui concentrare fondi e privilegi, ma modalità di messa in rete di tutte le eccellenze diffuse già esistenti e di quelle potenziali, su tutto il territorio nazionale.
Molto spesso si è puntato il dito contro l’infodemia per giustificare il disorientamento dell’opinione pubblica rispetto alle misure di contenimento dell’epidemia. Lei che ne pensa?
Se c’è una cosa che l’“infodemia” di questi mesi ci ha insegnato è che uno studioso esperto di una certa materia, nel rispondere a domande su temi su cui non ha una specifica competenza, dovrebbe premettere sempre con chiarezza che – in quel campo – sta semplicemente esponendo delle opinioni. C’è poi una netta differenza tra certezze e probabilità, tra fatti verificati e ipotesi. Le ipotesi solitamente sono più affascinanti, ma necessitano di prove, di discussione, di verifica prima di poter essere prese come base di politiche pubbliche. È un dovere per chi conosce e pratica il metodo scientifico chiarire in ogni possibile occasione questa differenza, anche e soprattutto quando personalmente si propende per una in particolare tra le ipotesi di lavoro. È naturale, inoltre, che un epidemiologo osservi Sars-Cov-2 e i suoi effetti sulla specie umana da un punto di vista differente rispetto a quello di un virologo, di un clinico, di un economista, di un linguista o di un sociologo, e che anche nello stesso settore possano coesistere priorità diverse, criteri diversi, interpretazioni diverse e talvolta contrastanti. Finora, però, solo pochi tra gli studiosi hanno intuito la necessità di spiegare ai cittadini che queste e altre dinamiche sono parte integrante del metodo scientifico.
A fine maggio uscirà per l’editore Raffaello Cortina un suo nuovo libro, “Armati di scienza”, ci può anticipare qualcosa?
Alla luce delle riflessioni pubbliche formulate in questi anni, con questo volume ho provato a declinare con un linguaggio semplice i contenuti essenziali della dimensione etica della scienza, del coltivare il suo metodo, del rapporto altalenante con la politica e l’informazione. Armati di scienza spazia davvero tra tanti temi, che non voglio anticipare. Per molti versi è per me un “esperimento narrativo” del cui esito, a differenza di quel che vivo al bancone del laboratorio, saranno severi giudici i lettori stessi. Il titolo dal sapore “guerresco” è, come spiego nell’introduzione, figlio dei tempi che stiamo attraversando: richiama la necessità di farsi letteralmente forza della scienza e del suo portentoso metodo per conoscere la realtà delle cose, per affrontare un presente sempre più tumultuoso di fatti, eventi, informazioni che corrono il rischio di trascinarci nella corrente della vita, sballottandoci indifesi tra mode, narrazioni fantasiose e – specie nella salute e in politica – suggestioni pericolose.


L’intervista è stata pubblicata su Left del 7-13 maggio 2021

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SOMMARIO

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).