Ricostruire quanto accaduto negli ultimi giorni ci può aiutare a capire dove questa storia può andare a finire. Esiste una legge in Israele che permette, a chi possiede la cittadinanza israeliana, di rivendicare la proprietà di terre possedute prima del 1948, se può esibirne il titolo, anche nel caso in cui queste siano oggi abitate da palestinesi, cui invece è negato diritto analogo. Chi non ha la cittadinanza israeliana, come i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, difficilmente riesce a produrre un titolo di proprietà valido, se chiamato in giudizio.
Negli anni alcune società hanno, per questo, acquisito molti di questi titoli di proprietà dalle antiche famiglie possidenti, delle comunità ebraiche che già prima della nascita dello Stato di Israele vivevano nella Terra Santa delle tre religioni monoteiste. In applicazione di questa legge, la Absentee Property Law, sono centinaia i palestinesi che ogni anno sono forzatamente costretti ad abbandonare le proprie abitazioni.
È questo il caso delle famiglie di Sheikh Jarrah, uno dei quartieri arabi di Gerusalemme e luogo da cui si è accesa la miccia dell’escalation di violenza che in questi giorni sta macchiando di sangue le strade della Palestina. Lì Nahalat Shimon, un’organizzazione radicale religiosa di israeliani che mira a ridurre la presenza araba a Gerusalemme Est, ha intentato una causa, finita ora alla Corte suprema israeliana, che ha sospeso la sua pronuncia visti gli scontri generati dalla questione.
Così, sulla base della rivendicazione di un diritto di proprietà antecedente la nascita stessa dello Stato di Israele, si avalla la sostituzione di composizione etnica di un quartiere. Quelle case, inoltre, sono state costruite con l’aiuto dell’Unrwa, ovvero l’agenzia Onu dedicata ai profughi palestinesi, quando negli anni Ciquanta su Gerusalemme Est era la Giordania ad esercitare il controllo, all’interno di un piano generale volto a costruire – più o meno – case per i palestinesi sfollati dai propri villaggi.
Non è un caso che su questa vicenda soffino le forze di ultradestra, fondamentalisti di religione ebraica che sostengono con forza la legittimità, non solo dell’occupazione in generale, ma anche nello specifico di razzismo e odio nei confronti della componente palestinese della società. Una linea politica che ha rafforzato le sue posizioni dopo le ultime elezioni, che per l’ennesima volta in poco tempo (in Israele si è andati al voto 4 volte negli ultimi 2 anni) non hanno permesso la formazione di un governo stabile, ma che hanno aperto le porte della Knesset – il parlamento israeliano – a forze estremiste di ultradestra che nella società oggi si sentono legittimate a perpetrare violenza e prevaricazione nei confronti del popolo palestinese.
Tanti sono stati, negli ultimi mesi, gli episodi di violenze e aggressioni, talvolta anche armate, da parte di questi gruppi che hanno alzato la tensione a Gerusalemme e non solo, con il benestare delle forze armate e di polizia. Rilevano, in proposito, le limitazioni poste all’ingresso nella moschea di Al Aqsa e alla Porta di Damasco.
A questo punto è necessario fare un passo di lato: da 12 aprile al 12 maggio i fedeli musulmani di tutto il mondo osservano il mese sacro del Ramadan. Un mese in cui le comunità palestinesi digiunano il giorno per incontrarsi e mangiare insieme al calar del Sole, in cui religione e tradizioni si fondono nella più intima definizione di identità di un popolo che non ha uno Stato e che trova sé stesso nelle profonde radici della propria cultura, nel rinnovarsi dei legami familiari e delle promesse di resistenza. Al termine di questo mese alcuni giorni di festa portano i fedeli nelle moschee per ritrovarsi in preghiera.
Qualcosa di simile alla Pasqua dei cattolici, le feste e i pranzi, i piatti della tradizione e le messe per la “resurrezione”. L’importanza di queste feste, per un popolo estremamente legato alla religione e alle tradizioni che questa porta con sé, aumenta se nei luoghi sacri si vede anche la rivendicazione di un’identità comune negata.
Questo è un elemento importante per capire con occhio più sensibile la forza dirompente delle immagini degli ultimi giorni. Nel centro della Città Vecchia di Gerusalemme si trova l’antichissima Moschea di Al Aqsa che insieme alla Cupola della roccia forma la Spianata delle Moschee o al-Haram al-Sharif ed è, al tempo stesso, il terzo luogo più sacro dell’Islam e il simbolo della resistenza palestinese all’occupazione.
Quando nella notte tra giovedì 7 e venerdì 8 maggio – giorno sacro per i fedeli musulmani – le forze di sicurezza israeliane, armate di tutto punto, hanno fatto irruzione all’interno della Spianata per disperdere i fedeli sparando gas, lacrimogeni e bombe sonore, non stavano solo praticando un atto di violenza. Come e di più delle tradizioni e delle feste religiose, Al Aqsa in sé è il simbolo della Palestina: violarlo con le armi nei giorni di festa ha significato umiliare in diretta mondiale il popolo palestinese e, a voler allargare lo sguardo, i musulmani di tutto il mondo.
Il giorno successivo migliaia di palestinesi, anche a piedi e da villaggi lontanissimi (perché l’esercito israeliano bloccava le strade) si sono messi in marcia per raggiungere e difendere Gerusalemme dall’oltraggio. La giornata è iniziata con scontri dalla mattina per le strade della Città Santa e fin dentro le sale di preghiera della moschea. I video e le immagini dei feriti, circolati all’impazzata sui social, non hanno fatto che aumentare ulteriormente la tensione in vista del 10 maggio.
Per i cittadini israeliani, un giorno di festa, il Jerusalem Day: si festeggia l’annessione di Gerusalemme Est, che per questo è considerata dall’Onu un territorio occupato, avvenuta al culmine della guerra dei sei giorni, nel 1967, in cui Israele conquistò una parte considerevole del territorio che oggi controlla. In quel giorno erano previste manifestazioni da parte dei gruppi di fondamentalisti ebraici, che avevano l’obiettivo di entrare addirittura sulla Spianata delle Moschee, come già successo nelle settimane precedenti.
L’innesto, in un clima di così dure tensioni, di questo ulteriore elemento, ha reso la situazione incandescente: le forze di sicurezza israeliane hanno provato già dalle prime ore del giorno a bloccare l’ingresso alla Moschea di Al Aqsa per i fedeli musulmani, generando scontri durissimi in tutta la parte Est della città. In poco meno di tre giorni, sono stati centinaia i palestinesi rimasti feriti.
Giovani shebab nati nell’occupazione, cresciuti dopo l’ultima Intifada – grande ribellione – del 2000 e, soprattutto, senza più i forti legami con le fazioni organizzate della resistenza palestinese che avevano caratterizzato le generazioni precedenti.
Nei Territori Occupati e a Gaza non si vota dal 2006. Proprio in queste settimane si sarebbero dovute svolgere nuove elezioni che avrebbero certamente messo in discussione i due centri di potere: Hamas – il movimento islamico di resistenza – che controlla militarmente Gaza e l’Autorità Nazionale Palestinese che governa, in parte, i Territori Occupati.
Entrambi, però, non godevano di sondaggi favorevoli nelle aree da loro controllate, e così, poco male quando Israele ha negato la possibilità di far partecipare al voto i cittadini palestinesi di Gerusalemme: elezioni rinviate a data da destinarsi.
Un processo di partecipazione democratica alla politica palestinese avrebbe messo in discussione gli equilibri e i sistemi di interesse e di potere che si sono stabilizzati in questi anni, e avrebbe dato forza e vigore alla causa.
Le elezioni avrebbero potuto aprire un processo di rinnovamento del tessuto politico e amministrativo, dando voce e protagonismo a nuove generazioni di palestinesi che fino ad oggi sono stati escluse dalla gestione della resistenza e dell’amministrazione.
Una vittoria laica a Gaza avrebbe messo in discussione lo status di assedio permanente della Striscia, così come una vittoria di Hamas nei Territori Occupati avrebbe messo in seria difficoltà l’apparato di gestione della Cisgiordania, che è integrato, per quanto formalmente alternativo, al sistema di occupazione israeliana.
Nessuna forza in gioco avrebbe avuto un vantaggio dalle elezioni, men che meno Israele, che in un momento di debolezza e sfaldamento della politica interna non poteva proprio permettersi un ricompattamento democratico e legittimato del popolo palestinese, per esempio sotto la guida di figure come Marwan Barghouti, leader laico candidato alle elezioni e da anni detenuto nelle prigioni israeliane.
Un’occasione persa e una porta chiusa alla possibilità di cambiamento.
Quindi, quegli shebab, sono scesi in piazza in tutta la Palestina e nelle città israeliane dei territori annessi nel 1948. Questo dato riflette una condizione inedita nella storia della questione israelo-palestinese, sintomo della profonda ferita che la torsione religiosa e identitaria di Israele ha prodotto nella sua stessa società. Non hanno niente da perdere e sono determinati a difendere la loro identità culturale e religiosa.
In questo contesto, con il numero crescente di violenze nelle strade, è arrivato l’ultimatum di Hamas ad Israele di martedì 11 pomeriggio, cui è seguito l’inizio del lancio di centinaia di razzi verso città vicine (come Ashkelon, che si trova a meno di 10 km dalla Striscia di Gaza) e obiettivi lontani come Tel Aviv. L’Iron Dome difende le cittadine e i cittadini israeliani con un’efficacia altissima che ha permesso, assieme al sistema di rifugi antiaerei, di tutelarne la vita e limitare fortunatamente le vittime civili.
Già dai primi momenti l’esercito israeliano ha attaccato duramente la Striscia di Gaza: target militari, infrastrutture, strade e palazzi interi rasi al suolo da una delle aviazioni più potenti del mondo. Una escalation che ha portato ad oltre cento vittime, di cui tanti sono bambini, e che non accenna a fermarsi, nonostante le pressioni internazionali e la richiesta di Hamas di trattare per un cessate il fuoco.
Quanto accade ci permette di dire chiaramente che la sproporzione di forze in campo è troppo grande per parlare di una guerra. La densità abitativa altissima di un luogo chiuso come la Striscia di Gaza non lascia spazio alla retorica degli obiettivi militari mirati: non colpire i civili è impossibile quando si conducono bombardamenti a tappeto su zone abitate da migliaia di persone.
Radere ciclicamente al suolo i palazzi, colpire ogni forma di infrastruttura, permette ad Israele di mantenere un controllo totale sullo sviluppo economico e sociale di una popolazione intera. La recrudescenza dell’operazione militare condotta la notte tra il 13 e il 14 maggio, con il sostegno delle truppe di terra portate al confine e centinaia di attacchi aerei, ha lasciato la distruzione completa in molte aree della Striscia di Gaza, come Beit Hanoun.
La promessa di infliggere ad Hamas un colpo duro e decisivo verrà pagata dalle migliaia di persone che stanno perdendo tutto. Le famiglie sfollate, ancora una volta, dovranno ricostruire da zero la propria vita nella continua ripetizione di quella che sembra essere una maledizione che ogni nuova generazione di palestinesi è condannata a vivere: la deterrenza della distruzione segna la coscienza e la memoria di un popolo di giovani ragazze e ragazzi.
Intanto, fuori da Gaza, oltre la linea del fuoco e delle recinzioni, la situazione non è migliore. Città israeliane come Lod stanno vivendo giorni di scontri durissimi tra le comunità di palestinesi arabo-israeliani e i gruppi di fondamentalisti dell’estrema destra israeliana.
Allo stesso modo, con forza e determinazione stanno protestando i palestinesi dei Territori Occupati. Ragazze e ragazzi nelle strade contro l’esercito israeliano, che ha aumentato i contingenti e richiamato i riservisti per mantenere il controllo di una situazione sempre più tesa.
Lo sviluppo delle prossime ore ci aiuterà a capire quando e come si evolverà il quadro attuale, consapevoli che la ferita aperta ha portato alla luce con nuova forza questioni antiche, ma non solo. Le tante voci internazionali che si sono levate contro o a favore della linea dura adottata dal governo israeliano hanno evidenziato l’estremo isolamento che vive, oggi, il popolo palestinese, orfano di una leadership laica capace di godere dell’appoggio di un occidente (Italia in primis) ormai perfettamente allineato su posizioni filoisraeliane.
La dignità colpita delle tradizioni e dei luoghi religiosi lascia entrare in gioco un attore pericoloso, l’unico forse nello scenario internazionale ad essere in grado di parlare direttamente al popolo palestinese: Erdogan, capace di cogliere ad ogni occasione i vuoti di potere e di influenza prodotti dall’evolversi degli eventi.
Così, mentre molti tra i paesi arabi hanno avviato processi di dialogo e distensione dei rapporti con Israele, e per questo ora non ne compromettono i rapporti, la Turchia, per mezzo anche del Qatar, fedele banchiere di Hamas, si erge a difensore dei luoghi sacri dell’Islam e del popolo palestinese. Il presidente turco è addirittura arrivato a minacciare un intervento diretto, che, per quanto improbabile, lascia intendere che la potenza turca, in espansione in tutto il Mediterraneo, non ha intenzione di defilarsi dalla possibilità, ora un po’ più concreta, di contribuire in qualche modo alla destabilizzazione di Israele.
Un po’ più chiara appare, infine, oggi la funzione opposta ricercata da Benjamin Netanyahu, che, grazie a questa offensiva, ha ricompattato la sua maggioranza garantendosi ancora una volta la possibilità di rimanere al potere fino a nuove elezioni.
Ma qual è il prezzo? I palestinesi vivono e sono pronti a morire per la loro terra, non se ne andranno oggi come non hanno fatto in 70 anni. Che in Israele lo vogliano o no, i palestinesi esistono e resistono, e forse è arrivato il momento di accettarlo: porre fine subito al sistema di apartheid e alle violenze, riconoscere dignità, libertà e giustizia per il popolo palestinese, prima che sia il vecchio sultano a tornare ad affacciarsi alle porte di Gerusalemme.
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