Se c’è una cosa che appare intollerabile nel continuo inarrestabile processo di riordino del sistema finanziario italiano, è l’assoluto disprezzo per le sorti dei lavoratori “comprati e venduti” a pacchetto come nell’ultima operazione Intesa-Bper-Ubi e per i servizi sul territorio e i cittadini che lo abitano. Anche in questi giorni le pagine dei giornali sono piene di indiscrezioni sui futuri riassetti che riguardano un po’ tutto il sistema, con la ricorrente ipotesi di “spezzatino” per Monte dei Paschi, che dal punto di vista generale – e ancor più per ciò che questo istituto ha rappresentato e rappresenta per una regione come la Toscana – sono da considerare assolutamente inaccettabili.
Insieme al processo di concentrazione fortemente sostenuto dai regolatori europei e nazionali, Banca centrale europea, Bankitalia e governo in testa, che ragionevolmente vedrà a regime nel paese due o tre grandi player e un insieme di medio-piccole realtà, avanza però il contestuale esubero di migliaia di lavoratori e l’abbandono delle aree marginali e fragili del Paese da parte delle banche.
Ciò è manifesto soprattutto nel Mezzogiorno, ma comincia ad assumere rilevanza anche nell’Italia centrale. In Toscana sono 25 i Comuni senza sportelli bancari, spesso senza un ufficio postale o bancomat. Per lo più si tratta di realtà montane abitate da persone anziane, per le quali il ricorso ai servizi digitali e alle App appare più complicato, al di là di tutta la retorica possibile sulla alfabetizzazione finanziaria e digitale.
Da notare che, secondo un rapporto della stessa Regione Toscana, cinquanta Comuni in totale sono privi di copertura del segnale di telefonia mobile, circostanza che può essere interessante nella prospettiva di una vita bucolica e “disconnessa”, ma è assai avversa per chi deve disbrigare attività necessarie, come accedere alla propria banca con uno smartphone.
Se l’algoritmo che sovrintende le scelte organizzative di oligopoli finanziari che macinano miliardi di utili invitando in automatico a chiudere le filiali di tre dipendenti, spostare migliaia di lavoratori e lasciare milioni di cittadini senza un servizio costituzionalmente garantito, procede inesorabile e la protesta di sindacati, sindaci, associazioni dei consumatori nulla ha potuto finora, forse la politica dovrebbe interrogarsi sulle conseguenze dell’ampliamento di periferie sociali oltre che geografiche, che queste scelte alimentano. E che colpiscono i ceti più popolari e più fragili.
La sinistra in modo particolare dovrebbe provare ad incrociare una lettura dei dati elettorali in aree abbandonate da ogni genere di servizio, dai trasporti a quelli sanitari, fino alle banche. Ne trarrebbe forse qualche utile evidenza.
Il privato è privato ci viene spiegato, ed è inutile lottare contro i mulini a vento, tuttavia quando miliardi di denaro pubblico vengono riversati dai governi su operatori finanziari, per accompagnare operazioni di acquisizione o salvataggio, il minimo che si possa fare da parte del decisore politico è avanzare qualche richiesta di garanzia per il servizio e per il lavoro.
Altrimenti, la vulgata secondo cui pochi grandi gruppi, sicuramente più solidi, possano garantire maggior efficienza per lo sviluppo dei sistemi economici locali e per i cittadini sul territorio, oltre ad essere opinabile in sé, rischia di apparire risibile. È dubitabile che la tecnocrazia al governo sia sensibile a queste sollecitazioni, avendo in altri ruoli sostenuto il processo in atto, ma crediamo doveroso, per chi come la Cgil rappresenta interessi generali e non meramente neo-corporativi, lanciare l’allarme e provare a contenere i danni. Sperando di essere meno soli.
* Daniele Quiriconi è segretario generale Fisac Cgil Toscana