Negazionismo e silenzio sul genocidio del 1995. Nemmeno la condanna definitiva all’ergastolo di Ratko Mladic ha scalfito la perversa logica nazionalista di personaggi come il leader serbo-bosniaco Dodik che lo difende. La testimonianza di alcuni attivisti interetnici

Nell’ora della sentenza di condanna definitiva di Ratko Mladić, ex comandante dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, all’ergastolo per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel conflitto armato, Srebrenica è silenziosa come nei giorni in cui le ferite si approfondiscono. Le strade sono vuote, un silenzio che pare un urlo strozzato.
La barbarie compiuta tra il 10 e il 19 luglio del 1995, di cui Mladić è stato ritenuto colpevole, è una ferita non trattata, ancora priva del riconoscimento tra vittime e carnefici. Dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate dal generale serbo bosniaco perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda guerra mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi (i bosniaci musulmani). In pochi giorni scomparvero oltre ottomila persone.

L’8 giugno, data del pronunciamento del Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali (Irmct), l’organo che ha preso il posto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia delle Nazioni Unite (Icty), sul processo d’appello Mladić, a Srebrenica, a parte una nutrita presenza dei media, non c’è stata nessuna particolare manifestazione.
«Credo che ognuno tra le mura domestiche conduca le proprie battaglie interiori e si stia misurando con alcune verità. I leader religiosi e politici continuano a manipolare le paure, i numeri e la verità. Le persone restano schiavizzate dai rispettivi traumi e dalle sofferenze che li consumano. A volte credo che noi, cittadini di Srebrenica, saremo inghiottiti da questi inammissibili silenzi».

A parlare è Valentina Gagić Lazić, tra le anime della comunità interetnica Adopt Srebrenica, nata nel 2005 con il sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza. Lei è arrivata in città nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo bosniaco. Ha riconosciuto e preso piena coscienza del genocidio, quando i profughi musulmani hanno cominciato a tornare. Dal 1999 lavora insieme alle donne di Srebrenica, che nel luglio del 1995 hanno visto svanire padri, mariti e figli.
La sede dell’associazione dista pochi chilometri dai ruderi dell’ex base Onu di Potočari, dove sembra di respirare ancora la solitudine e il terrore vissuti dalle migliaia di persone che vi cercarono inutilmente la salvezza davanti all’inerzia e alla resa dei Caschi blu olandesi. Sull’antistante collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono le spoglie mortali di 6.539 dei 6.973 bosgnacchi finora riconosciuti grazie all’esame del Dna.
«A cinque chilometri da qui, nella cittadina di Bratunac, alla vigilia della sentenza si è tenuta una celebrazione in onore di Mladić – dice Emir Suljagić, direttore del Memoriale del genocidio di Srebrenica -. Esiste un…


L’articolo prosegue su Left dell’18-24 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO